Siamo all’”extravergine di cittadinanza”. Un fenomeno sociale, non di mercato. In Italia ci sono ancora attive 619mila aziende olivicole, molte più di quelle che producono frutta (330mila), cereali (325mila), vino (255mila). Ma nonostante questo numero rilevante la produzione italiana di olio d’oliva è in costante calo. Dal 2010 a oggi è infatti quasi dimezzata passando da 500mila tonnellate alle 270mila previste per la campagna 2022-23.
E questo sopratutto perché il 42% delle aziende italiane ha meno di due ettari di uliveto, il che significa che poco meno della metà delle aziende olivicole si dedica a una produzione hobbistica o destinata al solo autoconsumo. Solo il 2,5% delle imprese italiane, infatti, ha più di 50 ettari contro il 7,5% della Spagna. Sono i numeri resi noti da Nomisma il 14 febbraio nel corso della presentazione dei risultati dell’accordo di filiera stipulato nel 2018 tra Confagricoltura e Carapelli Firenze.
«Sono cifre che disegnano un’olivicoltura che va considerata più come un fenomeno sociale che un vero settore produttivo – ha detto Denis Pantini di Nomisma –. E numeri ancora più preoccupanti emergono dai dati sugli investimenti nei quali l’Italia è fanalino di coda. Tra il 2011 e il 2021 infatti le superfici a oliveto sono aumentate del 41,6% in Cile, del 39,5% in Argentina, del 22,6% in Marocco, dell’11,4% in Turchia, del 10,9% in Portogallo, del 5,4% in Spagna (quindi crescono anche in quello che è già abbondantemente il leader produttivo mondiale), persino dello 0,4% in Francia mentre le superfici a uliveto calano del 3,5% in Italia. Numeri confermati anche dalle cifre sul commercio mondiale di olio d’oliva. Tra il 2011 e il 2021, l’export della Turchia è aumentato dell’16,4%, quello del Portogallo del 14,8%, della Tunisia del 9,8%, del Cile del 9,7%, della Francia dell’8,2%. Rispetto a una media del commercio mondiale cresciuto in dieci anni del 6,2% quello made in Italy è aumentato solo del 3%. In queste condizioni tra non molti anni l’Italia resterà un player marginale e verrà superata da nuovi e vecchi protagonisti del settore oleario».
Bisogna rapidamente correre ai ripari. E la strada maestra è quella degli accordi di filiera come quello stretto nel 2018 tra Carapelli Firenze e Confagricoltura. «Un accordo che ha consentito di commercializzare olio d’oliva per circa 25 milioni di euro – ha commentato Anna Cane di Carapelli Firenze – garantendo una giusta remunerazione ai produttori e un prodotto di qualità ai consumatori. Adesso vogliamo alzare l’asticella mediante questo strumento sia sotto il profilo della qualità del prodotto che riguardo alla sfida della sostenibilità».
«Confagricoltura e Carapelli – ha aggiunto il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti – nel 2018 condivisero l’opportunità di approfondire alcuni temi cruciali per il comparto olivicolo oleario e di definire una progettualità comune. Oggi, dopo cinque anni, a valle di un lavoro intenso di scambio e di confronto, possiamo affermare con soddisfazione che l’intesa con Carapelli Firenze è un’esperienza di successo, che ha anticipato i tempi e che sicuramente faremo proseguire per condividere sfide sempre più innovative e stimolanti. Adesso ci auguriamo che l’accordo di filiera garantendo stabilità di reddito e certezze ai produttori possa essere anche il viatico per spingerli a investire di più in olivicoltura».
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