The Dark Side of the Moon, album da 50 milioni di copie grazie al quale i Pink Floyd uscirono dal «sagrato» della psichedelica britannica per imporsi come fenomeno mainstream globale, fu pubblicato l’1 marzo del 1973 sul mercato americano e il 16 marzo in Inghilterra. A distanza di 50 anni, è tempo di grandi celebrazioni: il 24 marzo esce il cofanetto The Dark Side of the Moon 50th Anniversary che include Cd e vinile gatefold con la nuova rimasterizzazione 2023 dell’album in studio e audio Blu-Ray e Dvd con l’originale mix 5.1 e le versioni stereo rimasterizzate.
Il mondo è cambiato (e non poco) rispetto a quel fatidico primo marzo di 50 anni fa: la contrapposizione democrazie liberali-blocco comunista ha lasciato il posto a quella tra occidente e autocrazie. La gloriosa Emi non esiste più e, dal suo fallimento, il repertorio floydiano è passato a Warner Music. Il catalogo dei Pink Floyd è in vendita, ma il dossier, stimato sui 500 milioni, non si sblocca. Anche a causa dei punti di vista abbastanza diversi sulla guerra in Ucraina tra gli ex membri Roger Waters-David Gilmour. Mettici poi che l’ingestibile Waters è anti-sionista convinto e la circostanza ha portato, di recente, all’annullamento di suoi concerti in Polonia e Germania. Nonostante tutto, il vinile di Dark Side continua a piazzarsi, anno dopo anno, in posizioni di vertice nelle classifiche dei supporti fisici più venduti. Rendiamo omaggio a questo capolavoro facendolo «a pezzi». Perché, a osservare un’opera d’arte centimetro per centimetro, c’è sempre qualcosa da scoprire. Vale anche per quello che, a oggi, è l’unico disco della storia ad aver trascorso 950 settimane nella Billboard 200.
Speak to me
È l’intro della concept opera, il brevissimo brano di rumorismo avanguardistico che ci introduce alle atmosfere del disco. Parte in fade in, riunisce il battito del tempo e della vita, il tintinnare dei danari, le voci distratte e incomprensibili degli avventori di Abbey Road «intervistati» dalla band, urla di follia. Quel battito che avanza, in realtà, non era nuovissimo: arrivava da Heart beat, pig meat che i Pink Floyd composero nel 1969 per la colonna sonora si Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni.
Breathe
David Gilmour che si destreggia tra un arpeggio ipnotico di chitarra e una lapsteel vagamente hawaiana, il ritmo compassato della batteria di Nick Mason, Waters che al basso fa il minimo sindacale, Rick Wright che puntella il tutto al sintetizzatore. Poi la voce di Gilmour che, delicata come il tuono, sussurra le liriche immortali di zio Roger. Breathe è magia, ma anche artigianato: nasce da un’improvvisazione risalente al live in Cincinnati del novembre 1971. Era il periodo in cui Wright non faceva altro che ascoltare Kind of Blue di Miles Davis. E si sente: il giro armonico riprende All Blues.
On the run
L’idea iniziale era collocare come terza traccia del disco un’improvvisazione chitarristica di Gilmour che si produsse in The Travel Sequence. Ottima prova, ma per passare alla storia devi fare qualcosa in più. O forse qualcosa in meno: i Nostri allora, consultandosi con quella vecchia volpe di Alan Parsons, tolsero la chitarra e inserirono loop di sintetizzatore. Ne venne fuori una specie di sintesi musicale del significato dell’esistenza nell’evo contemporaneo. Vite «in corsa» ma anche «impazzite».
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