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25 film per il 25 Aprile

today26 Aprile 2023 3

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(Adnkronos/Cinematografo.it) – Da capolavori che hanno segnato la storia del cinema a opere coraggiose che rileggono le pagine più drammatiche del nostro passato: Rossellini, Bertolucci, Scola, Taviani e non solo, per celebrare il giorno della Liberazione in 25 film, riportati di seguito in ordine cronologico.

“Roma città aperta” di Roberto Rossellini (1945)

Non si prescinde: il film-simbolo di una nazione, l’emblema del neorealismo, pietra miliare del cinema di tutti i tempi, girato pochi mesi dopo la liberazione di Roma e a guerra ancora in corso. All’origine del personaggio di Aldo Fabrizi, la figura di don Giuseppe Morosini, ucciso dai nazisti nel 1944. Nell’urlo di Anna Magnani, il dolore di un popolo.

“Il sole sorge ancora” di Aldo Vergano (1946)

Finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e scritto, tra gli altri, da Guido Aristarco, Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani (anche attori, con Gillo Pontecorvo), può essere considerato il “film ufficiale” del C.L.N.: tra melodramma e lotta politica, dall’8 settembre 1943 all’insurrezione di Milano, racconta la resistenza partigiana con ragione e sentimento.

“Estate violenta” di Valerio Zurlini (1959)

Mélo ribelle, struggente fino a farsi dilaniante, che colloca una storia d’amore scandaloso (una matura vedova di guerra e un annoiato rampollo borghese) tra la caduta del fascismo e l’armistizio: «La guerra è finita e noi l’abbiamo perduta: quel che conta è uscirne vivi». C’è tempo per amarsi sotto le bombe, in attesa della pace? Forse no.

“Il generale Della Rovere” di Roberto Rossellini (1959)

Uno dei primi film con cui il cinema italiano torna a parlare degli eventi bellici e resistenza antifascista (temi tabù nel dopoguerra) con un Vittorio De Sica che, quintessenzialmente italiano, da cialtrone come tanti e si redime scoprendosi eroe: un’altra Italia è possibile. Leone d’Oro ex-aequo con La grande guerra, contro la retorica militare: la destra polemizzò duramente.

“Il gobbo” di Carlo Lizzani (1960)

Dalla vera storia di Giuseppe Albano, partigiano del Quarticciolo, un interessante connubio tra spirito neorealista e moduli spettacolari: una vicenda anche romantica (che brava la dimenticata Anna Maria Ferrero) e naturalmente destinata a finire male, sullo sfondo popolare delle borgate romane assediate dai nazisti (nel cast c’è anche Pier Paolo Pasolini).

“La lunga notte del ‘43” di Florestano Vancini (1960)

Dal racconto di Giorgio Bassani, una folgorante opera prima che ha il coraggio di affrontare la crudeltà quotidiana del fascismo di provincia. Con un finale contemporaneo, nei mesi del governo Tambroni, che fa i conti con i sommersi (le vittime del regime e della guerra) e i salvati (ma anche i trasformisti), nel ricordo di chi ha combattuto per la pace.

“Una vita difficile” di Dino Risi (1961)

Il capolavoro del regista, del protagonista (Alberto Sordi) e dello sceneggiatore (Rodolfo Sonego, che mise molto di sé): romanzo di una nazione in fieri, epopea di un partigiano tradito da una pace che non è come immaginava, racconto della sinistra delusa dal nuovo corso. Pieno di sequenze indimenticabili. Palmiro Togliatti lo amò molto.

“Tiro al piccione” di Giuliano Montaldo (1961)

Mentre il cinema italiano cominciava a raccontare la Resistenza, Montaldo esordiva “dalla parte sbagliata”: dal romanzo di Giose Rimanelli, un cupo coming of age su chi cercò la “bella morte” a Salò. Il pubblico lo ignorò, la critica fu fredda: eppure ci voleva un certo coraggio a parlare degli italiani, violenti, codardi ma anche disincantati, che fecero quella scelta.

“Le quattro giornate di Napoli” di Nanni Loy (1962)

Il più bello e importante dei film del regista: una straordinaria tragedia popolare che mette in campo la sceneggiata ed elementi brechtiani, la cronaca storica e il pathos delle scene madri. Recitato in maniera anonima in omaggio alla popolazione, dedicato a Gennarino Capuozzo, il bambino che morì durante l’insurrezione che liberò la città.

“La ragazza di Bube” di Luigi Comencini (1963)

Dal romanzo di Carlo Cassola, la storia d’amore tra una ragazza (Claudia Cardinale, per la prima volta non doppiata) e un partigiano (George Chakiris, Oscar da pochi mesi). Dalla parte di lei, contro i furori e gli estremismi dell’Italia post-Liberazione, e sempre profondamente antifascista nello sguardo e nella passione.

“Il terrorista” di Gianfranco De Bosio (1963)

Realizzata dalla cooperativa di Ermanno Olmi e Tullio Kezich, una fosca opera prima che rievoca i giorni più drammatici della Resistenza veneziana. Oggi lo chiameremmo indie, all’epoca un esempio di cinema politico e resistenziale, in equilibrio tra lunghe discussioni e momenti di tensione, che colpì per rigore ideologico e asciuttezza narrativa.

“La donna nella Resistenza” di Liliana Cavani (1965)

Documentario realizzato dalla RAI a vent’anni dal 25 aprile, diretto dalla regista prima dell’esordio nel lungometraggio (Francesco d’Assisi), è un’inchiesta giornalistica che ha il merito di dare voce a staffette, partigiane, dirigenti politiche che ebbero un ruolo decisivo nella lotta di Liberazione. Testimonia ed emoziona, celebra e commuove.

“I sette fratelli Cervi” di Gianni Puccini (1968)

È vero, il tema sovrasta su tutto, d’altronde l’eccidio di Agostino, Aldo, Antenore, Ettore, Ferdinando, Gelindo e Ovidio, contadini del reggiano, cattolici e antifascisti, è stampato nell’immaginario popolare (ancora oggi la loro casa è un luogo sacro delle celebrazioni del 25 aprile). E il film, forse, è un po’ troppo timido e scolastico, ma vale la testimonianza, eccome.

“Giovinezza, giovinezza” di Franco Rossi (1969)

Il nostro Jules e Jim, uno dei capolavori più trascurati e segreti del cinema italiano: tra evocazioni di Antonioni e presagi dei Finzi Contini di De Sica, dalla provincia sotto il regime alla fuga per la libertà, uno straziante romanzo di formazione sull’antifascismo come percorso verso la maturità e sulle conseguenze della guerra nelle vite private.

“C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974)

Uno dei capolavori di tutto il cinema italiano, un monumento che migliora col tempo. Storia di un’amicizia breve che vale una vita (tre partigiani che si conoscono in montagna: «La pace ci divise»), allegoria della sinistra all’altezza dell’amore (Stefania Sandrelli epitome dell’Italia), compendio di una stagione che scompare con l’opera di un madonnaro.

“L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale” di Gian Vittorio Baldi (1975)

Cinema indipendente, di confine e di battaglia (presa diretta, fotografia sporca), sepolto dal tempo: tre repubblichini prendono in ostaggio i passeggeri di una corriera e li uccidono crudelmente accusandoli di tradimento. Sfacciatamente metaforico, dolente con tutte le sue fragilità, potente nonostante l’impianto didascalico.

“Libera, amore mio!” di Mauro Bolognini (1975)

Opera “maledetta” (girata nel 1973, osteggiata dalla censura e uscita due anni dopo) eppure tra le più sentite, empatiche, riuscite del regista. Dominato dalla migliore Cardinale di sempre, ritratto di un’anarchica irriducibile, che supera il Ventennio, aiuta la Resistenza, festeggia il 25 aprile ma non regge al colpo di coda del passato peggiore.

“L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo (1976)

Dal romanzo di Renata Viganò, un compendio della Resistenza che mette al centro un personaggio più unico che raro, di dimensione quasi mitologica (materna e volitiva, Ingrid Thulin in gran spolvero): è proprio lei a caratterizzare il racconto, a restituire qualcosa che appartiene ai valori ancestrali di una terra e alla passione civile di una stagione.

“Novecento” di Bernardo Bertolucci (1976)

Il più epico dei nostri film, il più estremo dei classici, il più politico dei melodrammi: non un apologo sull’Italia unita ma un romanzo profondamente regionale, una saga sontuosa che mette insieme il comunismo e Hollywood: dalla morte di Verdi alla Liberazione, con le bandiere rosse ad annunciare un mondo nuovo (che resta una promessa mancata).

“La notte di San Lorenzo” di Paolo e Vittorio Taviani (1982)

Forse il film dei fratelli più amato dal pubblico. Al centro c’è la strage di San Miniato del 1944, attribuita ai nazifascisti e invece causata accidentalmente dagli americani. Ma quel che conta è lo sguardo della povera gente, la mirabile sintesi tra l’enfasi e la memoria, l’intimismo e il realismo, la coralità e la solitudine, il ripensamento epico e il lirismo struggente.

“Notti e nebbie” di Marco Tullio Giordana (1984)

Dal romanzo di Carlo Castellaneta, uno sceneggiato di qualità cinematografica nella Milano lacerata dalla guerra civile. Decadente fino a farsi spettrale, calata negli abissi a tratti allucinata più che allucinante, mette in scena il 25 aprile dalla parte degli sconfitti: magistrale Umberto Orsini nel dar vita al fascista repubblichino votato alla morte.

“I piccoli maestri” di Daniele Luchetti (1999)

Non il migliore del regista, il romanzo di Luigi Meneghello si trasla nel resoconto doloroso e malinconico di un’esperienza destinata a sconvolgere la vita: la scelta partigiana di un gruppetto di studenti universitari del Partito d’Azione che s’imbatte in rappresaglie, rastrellamenti, fucilazioni, umiliazioni, patimenti.

“L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti (2010)

La strage di Marzabotto (cioè l’eccidio di Monte Sole, un rastrellamento che portò alla morte di circa 1830 persone) restituita senza retorica né sentimentalismi in un dramma rigoroso, civile, severo, toccante di matrice olmiana: la purezza morale, il pudore del dolore, il male come astratta corruzione dell’uomo, il miracolo della vita nonostante la morte.

“Una questione privata” di Paolo e Vittorio Taviani (2019)

Il tempo è stato galantuomo con Beppe Fenoglio, colui che meglio di tutti ha raccontato la Resistenza, rielaborando la propria esperienza attraverso una lingua frantumata e polifonica. Dal romanzo partigiano per eccellenza, nell’attesa della primavera di bellezza, uno spettrale andirivieni tra passato e presente avvolto nella nebbia, attraversato dal sangue.

“Bella ciao – Per la libertà” di Giulia Giapponesi (2021)

Documentario prezioso e sorprendente, che va alle radici di una canzone dalla genesi misteriosa, e che a un certo punto è diventato l’inno dei partigiani, reinventadosi in tempi recenti come brano di lotta delle nuove generazioni di tutto il mondo (anche grazie a La casa di carta).

(in collaborazione con Cinematografo.it)

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Scritto da: redazione

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