La “voce interiore” dei Balcani attraversa il canyon newyorchese delle arti. La partecipazione di undici paesi dietro la mostra Ritual and Memory: The Ancient Balkans and Beyond – presso l’Istituto per lo Studio del Mondo Antico, a un isolato dal Met – segna un potente moto collettivo fatto di utensili e armi, modelli architettonici in miniatura, ornamenti in oro e ambra, vasi di bronzo. Sono il frutto di scavi in una regione che si estende dai monti Balcani a nord fino al bacino dei Carpazi.
Molti manufatti favorivano la comunicazione con gli dèi o erano utilizzati dalle comunità che li avevano creati per costruirsi un’identità nel regno terreno. Ogni pezzo, usato da uomini e donne, guerrieri e mogli, re e contadini, nelle celebrazioni e nei funerali, offre uno sguardo preciso sull’ordine sociale di comunità antichissime, ma solleva anche delle domande. Attraverso quale scala di valori, gli oggetti recuperati, riuscivano a penetrare una cultura rimasta in gran parte un mistero? È possibile portare in salvo la memoria di civiltà a lungo taciute?
Fatrin Krajka
“Guaritore” ideale di questo enigma spazio-tempo è il linguaggio di Fatrin Krajka, compositore e pianista che ha lasciato l’Albania per New York a tredici anni e ha scoperto la sua vocazione verso i Balcani dimenticati al terzo anno di studio del pianoforte alla Manhattan School of Music. “In me, bussano continuamente ricordi del primo ascolto dell’opera” racconta. “Mia madre era una violista dell’Orchestra dell’Opera e del Balletto, quando ero bambino mi portava sempre alle prove dei concerti. Mio fratello è un pianista e mio padre era un compositore. Sono cresciuto ascoltandolo suonare la fisarmonica, comporre fino a tarda ora e trascrivere con passione in spartiti la musica che sentiva attraverso le onde radio straniere. All’epoca, in Albania la musica occidentale era proibita; essere sorpresi ad ascoltare musica significava finire in un campo di internamento, da qualche parte in montagna, senza data di ritorno. Un altro ricordo che conservo è la prima volta che ho visto un film al cinema di Tirana. Solo in seguito ho scoperto che si trattava del cinema del mio bisnonno, il primo del Paese, aperto nel 1926. Si chiamava Kinema Nacional e fu sottratto alla mia famiglia quando il regime comunista prese il potere nel 1946”.
The Space in Between
The Space in Between, l’album di Fatrin Krajka in uscita il 20 giugno, accompagnato da torcigli di cosmo e fumo della moglie Jeanne Krajka, è “un viaggio a cavallo del tempo che scorre”. Ha parecchi punti di contatto con i reperti archeologici della mostra Ritual and Memory e con gli elementi costitutivi dell’Europa sud-orientale. Ne mette in luce il dinamismo e la nuda apertura spaziale: “I confini attuali sono soltanto il prodotto della storia moderna”. Tracce come Path, Ascensio e Spiritum evocano storie di fantasmi. Fantasmi che infestano incessantemente la spina dorsale Arbëreshë, bypassando il sublime, il terribile, la poesia, come in De Luna, dove è l’indagine del rapporto tra l’uomo e la sua immaginazione a liberare quella che Fatrin chiama “voce interiore”.
Mostra – Ritual and Memory: The Ancient Balkans and Beyond, Institute for the Study of the Ancient World, New York, mostra permanente
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