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Cinema

5 film minori di Martin Scorsese da non sottovalutare

today21 Ottobre 2023 11

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Una carriera costellata di successi e premi, un posto tra i più grandi di tutti i tempi che gli spetta di diritto. Martin Scorsese non sembra volersi fermare e in occasione dell’uscita nelle sale italiane della sua ultima fatica (qui la recensione di Killers of The Flower Moon), sembra opportuno celebrarlo ancora una volta. Ma sarebbe troppo facile ricordare i capolavori universalmente ritenuti tali (come fatto recentemente parlando della storia produttiva di Toro Scatenato tornato restaurato in sala). Perché oltre ad essi va evidenziato sia un panorama di grandissimi progetti sottovalutati da molti, tra cui i vari Fuori Orario o L’età dell’innocenza, che un ulteriore sottobosco inesplorato dal grande pubblico.

Esiste infatti tutta una serie di titoli diretti dal regista di Re per una notte e Quei bravi ragazzi fuori dai radar più mainstream. Non così vicini al cinema che lo ha glorificato, queste opere andrebbero riscoperte per comprendere non solo la capacità di Scorsese di spaziare su più fronti cinematografici ma soprattutto come alcuni titoli considerati “minori” – termine che non per forza vuol dire di minor valore, ma spesso legato a dinamiche di produzione e successo pubblico – possano riservare piacevoli sorprese.

Al di là della vita

Tratto dal romanzo di Joe Connelly – ispirato ad esperienze dirette di soccorso in ambulanza – Al di là della vita (Bringing out the dead) è uno dei film di Scorsese meno ricordati, spesso relegato a opera di minor valore. Uscito nel 1999, fu uno dei più grandi flop della carriera del cineasta, incassando poco e impressionando anche meno pubblico e critica. A distanza di più di vent’anni, contro ogni aspettativa, non solo l’opera è stata ampiamente rivalutata ma è oggi, senza troppi sforzi, considerabile come una delle migliori di quel periodo. La storia segue il paramedico Frank Pierce (Nicolas Cage) in tre delle sue folli notti di lavoro lungo le strade di Hell’s Kitchen, tra disperazione e tormento causati dal ricordo di una giovane paziente che non è riuscito a salvare.

Al di là della vita è un titolo imperfetto ma intenso, viscerale, allucinato e con più di un’analogia con Taxi Driver: le sporche vie infernali di New York, una società malata, l’ambulanza che qui si sostituisce al taxi di Travis Bickle e un protagonista perso in una spirale caotica di negatività.

Del resto, dietro al film c’è Paul Schrader, capace si stratificare simbolicamente la narrazione e di infondere quell’atmosfera di disperazione e una ricerca di redenzione che rende i suoi protagonisti dei modelli cristologici in una terra di bergmaniana memoria in cui Dio sembra in silenzio. Puro Scorsese e puro Schrader, una visione del mondo che solo loro riescono a rendere così affascinante: resta ancora un mistero il perché non fu accolto bene. E perché se ne parli ancora così poco.

Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese

Una parte della produzione di Scorsese viene quasi sempre messa da parte dal dibattito pubblico, accantonata pur rivestendo una fondamentale importanza per la sua carriera del regista. Perché egli ha dentro di sé più anime e una di queste è quella del documentarista. Con Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, del 1995, egli racconta la settima arte a stelle e strisce, partendo dai pionieri per arrivare alla New Hollywood (e lì si ferma, forse per non arrivare a parlare di se stesso e del suo lavoro).

Non solo dall’alto dell’esperienza in prima persona ma soprattutto in quanto cinefilo e appassionato di tutti i generi, da grande divoratore di film, egli affronta e analizza alcuni dei titoli più importanti del Novecento, parlando dei suoi autori e del valore artistico, senza dimenticare quello sociale e culturale, che ebbero e continuano ad avere.

Questo atto d’amore non è solo un tributo ma quasi un corso intensivo impartito da un professore sapientissimo, che si rivolge allo spettatore quasi fosse un amico, e abile nel coinvolgere ed entusiasmare, grazie soprattutto ad un’idea di cinema stimolante e tutt’altro che convenzionale: Scorsese ricorda e celebra i maestri, i grandi autori del passato, ma non lascia mai dietro i nomi da sempre in secondo piano, scusandosi però per non poter citare tutti e tutto. Un documentario di quasi quattro ore, con decine di opere citate, può sembrare un’impresa da seguire e reggere: alla fine, però, sembrerà di non averne avuto abbastanza.

L’ultimo valzer

È il 25 novembre del 1976 e alla Winterland Arena di San Francisco il gruppo The Band si esibisce in pubblico per l’ultima volta. Il loro ultimo valzer, però, non poteva esser soltanto un concerto, non poteva limitarsi ad una semplice esibizione dal vivo. Centinaia di maestranze coinvolte e ospiti del calibro di Eric Clapton e Bob Dylan: una celebrazione non solo della musica ma della vita devota all’arte e di un’epoca che stava attraversando il suo viale del tramonto. Ma per rendere immortale quel momento non bastava una registrazione audio ma serviva qualcuno per le riprese, qualcuno capace di creare un mito.

Qui entra in gioco Scorsese, fresco di Palma d’oro a Cannes per Taxi Driver e grandissimo appassionato di musica, insieme una serie di collaboratori di livello altissimo (basti pensare a Michael Chapman, che in seguito curò la fotografia di Toro Scatenato). Ogni dettaglio scenico e tecnico, dalle luci alle macchine da presa a la loro posizione, è pensato al dettaglio, tenendo conto delle singole canzoni e le relative performance.

Tutto doveva valorizzare lo spettacolo, per renderlo grandioso ed eterno. L’ultimo valzer non è solo un documentario musicale ma forse il più grande film-concerto realizzato – al pari di Woodstock, il cui montaggio fu, tra l’altro, curato anche da Scorsese – soprattutto per la fortunata scelta di intervallare il live con le intime interviste ai membri, dal quale emergono nostalgicamente riflessioni sulla carriera della Band e su un intera fase della storia americana.

Alice non abita più qui

Al suo quarto lungometraggio, Martin Scorsese mette in piedi una profonda e intensa riflessione sulla donna – momento raro, seppur non unico, nella sua filmografia – e sul sogno americano, portatore di dolci speranze ma al contempo amare delusioni. La sceneggiatura di Robert Getchell plasma un eroina fuori dai canoni e sinceramente credibile, ressa tale soprattutto dalla straordinaria interpretazione di Ellen Burstyn (premiata poi con l’Oscar).

Alice Hyatt vaga per gli Stati Uniti, da un luogo all’altro, insieme al figlio preadolescente: la donna, vedova, ha intenzione di andare avanti finché non arriverà a Monterey, cercando di far successo come cantante. Drammatico ma con accenni di solare romanticismo, un road movie che a volte si trasforma in musical ma in cui Scorsese riesce a non rendere nulla scontato, riuscendo ad indagare l’animo umano anche in una zona di frontiera, di periferia, meno avvezza al suo cinema da mean streets metropolitane.

Un racconto che affronta, senza moralismi o enfatizzazioni, il ruolo di una donna in difficoltà in una società fortemente maschilista, sfidando un conformismo di una società che, ancora, non vedeva di buon occhio una presa di posizione femminista. Era ancora all’inizio della sua carriera da regista ma risultava evidente la voglia di rompere gli schemi e rivoluzionare attraverso il suo cinema, nel quale già si notano sperimentalismi e una decisa impronta autoriale . Alice non abita più qui è una piccola perla dimenticata da riscoprire e di cui innamorarsi.

New York, New York

Considerato minore nella filmografia del suo autore, non è così facile trovare qualcuno che lo consideri il suo Scorsese preferito. Eppure New York, New York è un capolavoro che, al pari e forse più dei titoli già citati, ha solo avuto minor fortuna di quanta ne avrebbe meritata. Nettamente in anticipo sui tempi e modernissima – anche a fronte dei suoi quasi cinquant’anni – l’opera del 1977 rende omaggio al grande musical americano, alla commedia screwball e ai lavori di Minnelli (la scelta di sua figlia Liza come attrice protagonista è così una sembra così una dichiarazione d’intenti).

La vera sorpresa però, ed è forse il motivo per cui deluse all’uscita, sta nel vedere tutto questo mondo privato, quasi totalmente, della sua artificiosità luminosa: staccandosi dal passato, lo spettacolo messo in scena si discosta spesso dalla musica, prima d’allora elemento centrale e imprescindibile nel genere, per parlare di esseri umani, di un amore tormentato tra una cantante e un sassofonista (un Robert De Niro fuori dalla confort zone ma perfetto nella parte) che non riescono a conciliare sentimenti e carriera.

Una danza malinconica in cui il musical si trasforma e da magia diventa realistica finestra sulla vita quotidiana, non sempre felice. Né storia d’amore e musical né dramma, New York, New York è invece tutto insieme, equilibrato al punto da creare qualcosa di nuovo e forse irripetibile (tra i pochi, pochissimi, ad averlo in parte eguagliato, La La Land di Damien Chazelle).



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Scritto da: redazione

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