Il palco non poteva che essere quello del Metropolitan di New York. Il ruolo quello di Cavaradossi, personaggio da lui più volte interpretato per la platea newyorchese cui, in fondo, doveva la fama mondiale. Il 13 marzo 2004, esattamente 20 anni fa, con la Tosca di Giacomo Puccini si esibiva per l’ultima volta Luciano Pavarotti, chiudendo una parabola lunga 43 anni che aveva portato più di un critico a definirlo il più grande tenore di tutti i tempi. Non la sua ultima esibizione in assoluto, perché di lì alla morte di Big Luciano, avvenuta tre anni più tardi, ci sarebbero stati ancora concerti e apparizioni varie, ma di sicuro il momento che certificava la fine di un’epoca, la «sua» epoca.
L’Italia come piace al mondo
Pavarotti è stato insieme l’alto e il basso; l’opera (e il) pop; l’italiano più famoso al mondo anche per quella meravigliosa capacità di corrispondere all’idea che degli italiani hanno nel mondo: l’artista dotato più di ogni altro da madre natura e l’amante smisurato di ciò che è bello e ciò che è buono; il comunicatore sopraffino e il padrone di casa generoso che, come nessun altro, sa sedere a capotavola; l’archetipo stesso degli italiani-brava-gente riconosciuto a tutte le latitudini. Che sia stato o meno il tenore più grande di tutti i tempi può essere oggetto di discussione, indiscutibile è il fatto che ha inventato il crossover tra classica e popular music e il moderno ruolo di tenore pop.
Le tre «vie di Damasco» di Big Luciano
E infatti qui non c’interessa parlare delle sue doti di interprete lirico ma delle tre «vie di Damasco» che lo trasformarono nel grandissimo pezzo di immaginario collettivo che conosciamo. La prima ha a che fare, ancora una volta, con il Metropolitan: «Nel ’76, otto anni dopo il mio debutto al Met, camminavo indisturbato per New York senza che nessuno sapesse chi fossi», raccontava Big Luciano al Corriere della Sera nel 2004. «Poi, nel marzo del ’77, la Pbs inaugurò la serie di concerti in diretta dal Met e nel giro di una notte non potevo scendere per strada senza essere preso d’assalto». Tradotto: Pavarotti diventa Pavarotti in televisione ed «esce» dai teatri per esibirsi nelle grandi arene all’aperto.
La seconda via di Damasco fu quel meraviglioso catalizzatore di processi chiamato Italia ’90. In occasione dei Mondiali di calcio che dovevano fare da coronamento agli anni Ottanta della Milano da bere, Big Luciano mette in piedi un team-up con i più grandi tenori viventi: assieme a lui ci sono Placido Domingo e José Carreras. Il repertorio non è più soltanto operistico ma a attinge con intelligenza al folklore, che si tratti Granada o di Funiculì funiculà. I puristi storcono il naso, qualcuno scomoda Gillo Dorfles e la categoria di Kitsch ma ne nasce un format da decine di milioni di copie vendute e tour soldout in giro per il pianeta. E Pavarotti diventa ancora più Pavarotti.
L’avvento di Pavarotti & Friends
La terza via di Damasco è Zucchero che gli chiede di cantare, con la voce impostata, il ritornello della title track del suo album Miserere (1992). Il tenore modenese vorrebbe rifutare, stavolta sembra veramente troppo anche per lui, ma alla fine si lascia coinvolgere. Galeotta fu la figlia, grande fan del bluesman reggiano, reduce dagli exploit di Oro, incenso e birra. Il disco esce, anche in quel caso è un successo da 1,4 milioni di copie, ma soprattutto apre a Big Luciano la strada del Pavarotti & Friends, festival benefico che per dieci edizioni porterà a Modena il gotha della musica mondiale: da Bono a James Brown, da Lou Reed a Sting, da Stevie Wonder a Eric Clapton, solo per citarne alcuni.
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