Non fatevi ingannare da animali alla Hergé e robot alla Futurama: lo spagnolo Pablo Berger racconta una metropoli e un’amicizia perduti, parlando a un pubblico adulto che sa “come si cambia per non morire”.
Vedendo Il mio amico robot di Pablo Berger mi è subito balzata alla mente una frase della sceneggiatura di Past Lives di Celine Song, film della stessa annata uscito qualche mese prima di questo lungometraggio animato. Nella pellicola live action, ambientato in una New York vista per la prima volta con occhi da turista da una persona che la abita da lungo tempo, la voce fuori campo della protagonista postula che quando lasci qualcosa guadagni qualcosa. Laddove di solito il cambiamento viene inquadrato con negavitività, come perdita.
I due film hanno davvero molto in comune: l’ambientazione new yorkese appunto, la centralità di una rapporto intenso tra due persone che non stanno più insieme, ma ancora percepiscono il riverbero dell’antico legame, la positività con cui raccontano il dopo di una relazione amicale o amorosa. Il fatto di essere entrambi film straordinariamente catartici, belli, positivi nelle proprie conclusioni ma non reticenti nel far vedere quanto bisogna soffrire. Né Past Lives né Il mio amico robot nascondono quanto bisogna soffrire per lasciarsi davvero alle spalle qualcosa e abbracciare il cambiamento.
In un certo senso anche Robot Dreams è un debutto: non è il primo film del regista spagnolo Pablo Berger, che si era fatto conoscere nel 2012 con l’incredibile omaggio la cinema muto Blancanieves. Robot Dreams è il suo primo lungometraggio animato, osannato dalla critica, il cui impatto è stato tale da traghettarlo agli Oscar con una candidatura nella categoria dedicata insieme al vincitore Hayao Miyazaki. In Il mio amico robot c’è molto di Berger regista e persona, ma anche una serie di elementi che potrebbero spiazzare quanti non conoscono il suo cinema e tendono ad aspettarsi dall’animazione un certo tipo di discorso, per un certo tipo di target.
Amicizia e solitudine nella Grande Mela
Il protagonista del film è un cagnolino antromorfo di nome Dog, un giovane single che vive nella New York multicultale e vivacissima degli anni ‘80. Coronata dalle Torri Gemelle, la città è percorsa da suggestioni e stimoli creativi e musicali continui. La metropoli pullula di ogni tipo di animale che conduce la sua vita nella Grande Mela, in un melting pot di stili, influenze, easter egg cinefili. Dog non è in sintonia con la vivacità che lo circonda: si sente molto solo, non trova stimoli nella sua vita, priva di relazioni significative.
Così decide di comprare e assemblare un androide. Una volta attivato, Robot diventa il suo amico inseparabile. ll legame tra Dog e Robot arricchisce la vita di entrambi di stimoli, scoperte e sensazioni positive, almeno fino a quando l’androide rimane bloccato sulla spiaggia cittadina dopo una gita di fine estate. A causa delle regolamentazioni vigenti, Dog non potrà andare a recuperarlo prima del ritorno dell’estate e della riapertura della spiaggia pubblica. Dopo i primi tentativi fallimentari di salvataggio, si rassegna ad attendere.
Il film segue l’evolversi delle vite di Robot e Dog, prima come coppia, poi come singoli separati dagli eventi. Il primo è costretto a una stasi lunghissima, durante cui pensa all’amico e immagina scenari possibili attraverso intense sequenze oniriche che sublimano la mancanza che prova. Il secondo ricade nella sua spirale di solitudine, ma poi ne esce in maniera inaspettata, in attesa del ritorno dell’estate.
Il mio amico robot rischia di essere frainteso dal pubblico italiano
Robot Dreams è l’adattamento animato dell’omonima graphic novel di Sara Varon. Così come la fonte a fumetti, il film non prevede dialoghi, lasciando che sia l’espressività del segno grafico, la potenza del racconto visivo e l’evocatività della musica a fare gran parte del lavoro narrativo ed emozionale. Il più bel complimento che si possa fare al film è che quasi nemmeno si nota che è sia totalmente privo di dialoghi, perché è capace di sprigionare un’intensità emotiva tale in una lingua universale – quella dell’animazione e del cinema – che si comprende benissimo, anche senza bisogno di parole. Non stupisce questa scelta creativa di Berger, che già in Blancanieves aveva fatto a meno dei dialoghi.
Dentro Robot Dreams c’è molto di personale, a partire dai suoi ricordi di quella New York che si sentiva ed era il centro del mondo. L’estrema bellezza di Il mio amico robot è anche ciò che lo rende molto incline ad essere equivocato, specie da un pubblico come quello italiano poco avvezzo a immaginare l’animazione come forza espressiva di storie dedicate al pubblico adulto, poco abituato ad esplorare la produzione animata oltre il monopolio disneyano e qualche sporadica apertura alla produzione nipponica.
Il mio amico robot infatti come ambientazione parte sì da presupposti non dissimili da un Zootopia, ma parla a un pubblico che conosce intimamente l’esperienza di un rapporto che finisce, la malinconia e i dubbi che si porta dietro la rottura, quella lieve traccia di dubbio che permane anche quando si volta pagina. ll pubblico adulto a cui è rivolto questo messaggio universale viene invitato ad abbracciare il proprio sentimento fino in fondo, perché appunto, quando lasci qualcosa guadagni qualcosa. Solo che per lasciare andare qualcosa o qualcuno, ci vuole tempo e spesso fa male.
Il mio amico robot parla a un pubblico adulto, che conosce il rimpianto
Robot Dreams incapsula questo tempo necessario al cambiamento in 90 splendidi minuti in compagnia di un’animazione 2D che si rifà ai classici del genere europei e francesi, scegliendo come nume tutelare la leggerezza dei tratti espressivi dei personaggi di Hergé, il papà di Tintin.
Affiancato dall’illustratore José Luis Ágreda e dall’art director Daniel Fernández Casas, Berger ha lavorato per oltre un anno alla creazione di un film che è la summa perfetta delle possibilità dell’animazione e dell’occhio del regista puro, che racconta guidando con la cinepresa lo sguardo dello spettatore.
C’è un regista puro di corpi e sguardi dietro una scena apparentemente semplice ma strepitosa di Dog che, annoiato e pigro, insegue con la bocca la cannuccia della bibita che sta bevendo mentre sta stravaccato sul divano a guardare la TV. Nel suo sfuggirgli la cannuccia lo costringe a guardarla per essere afferrata, guidando il suo e il nostro sguardo in un’altra direzione, oltre la finestra, dove due vicini sono impegnati nella stessa attività (guardare la TV) ma in maniera attiva, partecipata, felice. È un piccolo esempio di qualche secondo di come Il mio amico robot ci faccia sentire lì, insieme a Dog, su quel divano, perché ci siamo stati anche noi a un certo punto. Magari non era un divano, magari non era una cannuccia a sfuggirci e non vivevamo a New York, ma quella sensazione di solitudine, in quanto adulti, l’abbiamo provata. Conosciamo anche quella città, abitata al cinema, con i film di Spike Lee e Woody Allen, che Berger omaggia di continuo.
Il mio amico robot è un film strepitoso, capace di un processo di catarsi di rara potenza. L’universalità di Robot e Dog – che a ben vedere sono senza sesso, senza età, coinvolti in una relazione profondissima ma non limitata – permette a chi guarda di vederci dentro di tutto. Quell’amico da cui ci si è allontanati, il familiare con cui non si parla più, l’ex con cui non ha funzionato. Il film prende su di sé rimpianti e non detti, ci costringe a guardarci dentro e, facendo versare qualche lacrima, realizza una catarsi che permette di guardare davanti senza la tentazione di voltarsi verso qualcosa che è stato importantissimo, che lo è ancora, ma senza intaccare ciò che si è costruito nella pagina successiva.
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