Un palcoscenico mastodontico, ingabbiato tra faretti e maxischermi, incombe sul grande prato a ridosso delle mura storiche di Lucca. Sotto, file e file di seggioline ordinatamente disposte, da un lato poco accoglienti tribune prefabbricate. Si parla di un pubblico di 6000 persone. Ma non del concerto di una rockstar si è trattato, bensì della serata celebrativa per i 100 anni dalla morte di Giacomo Puccini: iniziativa nata dalla cordata fra Ministero della Cultura, Comitato Promotore delle Celebrazioni Pucciniane, Città di Lucca, Teatro del Giglio, LuccaSummerFestival e altri.
E a rendere l’omaggio, nella città natale di Puccini, è stato Riccardo Muti, sul podio della ‘sua’ Orchestra Giovanile Luigi Cherubini. L’ha fondata vent’anni fa esatti; la ricorrenza da festeggiare è anche questa. La kermesse celebrativa soddisfa tutti i requisiti del caso: autorità (il ministro Sangiuliano), celebrità (Dustin Hoffman e Peter Greenaway, a Lucca per girare un film); e c’è pure la diretta televisiva RAI, in mondovisione. Anche il programma del concerto risponde al carattere nazional-pop dato alla manifestazione, e impagina un’inevitabile galleria di arie-romanze-duetti. Solo che le scelte sono fatte stavolta con gusto, non foss’altro perché ci risparmiano il solito Vincerò, immancabilmente berciato.
“Puccini secondo Muti”, recita la locandina. E com’è il Puccini di Muti? Levigato nel suono, costruito in piena corrispondenza con i bravi 123 musicisti della Cherubini, che per l’occasione fa sedere accanto gli strumentisti di oggi e quelli di ieri. Disteso nei tempi, eppur guidato da una mobile tensione del fraseggio. Muti l’aveva detto, e l’ha fatto: bisogna ripulire Puccini da sdilinquimenti e frivolezze. E così, in apertura di serata, il giovanile Preludio Sinfonico suona morbido, sontuoso nella sua cantabilità, e ha l’eloquio ampio di un poema sinfonico importante. Poi arriva la parata di arie-romanze-duetti, e qui gli esiti delle performances canore sono discontinui: Eleonora Buratto convince di più come Madama Butterfly che come Tosca e Liù, Luciano Ganci sfodera un bel timbro smagliante come Cavaradossi, Mariangela Sicilia è una Mimì dall’emissione dolce e dai colori rotondi, e con passione duetta anche con il Rodolfo schematico di Dmitry Korchak; Lidia Fridman è una Suor Angelica un po’ troppo teutonica, mentre Francesco Meli dà accenti di delicatezza lirica a Dick Johnson. Ma, in ciascuna di queste pagine, Muti propone sempre una direzione che completa e potenzia il significato drammatico del canto: “Tu che di gel sei cinta” trova nelle ultime frasi dell’orchestra una forza tragica e inesorabile.
Il celebre Intermezzo da Manon Lescaut, reso come sospeso e diafano, senza struggimenti, porta infine all’intero Quarto Atto dell’opera. Così isolato, rivela, come concentrata, tutta la sua forza drammatica. La Fridman (Manon) e Meli (Des Grieux) scolpiscono le parole della loro disperazione senza essere stentorei; e Muti ne guida il percorso musicale ora accendendolo di tensione ora evidenziando, con delicatezza cameristica, la desolazione di certe soluzioni strumentali. Il tutto portato verso una conclusione che risuona epica e tragicamente grandiosa, quasi wagneriana. Da solo, questo Quarto atto della Manon, valeva l’intera serata.
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