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Slow Horses continua a essere una serie pazzesca: la recensione della stagione 4

today5 Settembre 2024 18

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Poche serie apprezzate e funzionanti come Slow Horses si prenderebbero i rischi enormi visti nella stagione 4. Che però pagano alla grande, con la stagione più personale vista finora. La recensione.

Giunti alla quarta stagione di Slow Horses, messi di fronte a un’altra esemplare realizzazione di 6 episodi di televisione di qualità eccelsa, cominciano a mancare aggettivi elogiativi per raccontare una delle migliori serie attualmente in produzione a livello globale. Stavolta spenderò l’aggettivo coraggiosa. Slow Horses è una serie coraggiosa, che quando potrebbe giocare sull’usato sicuro e di altissima qualità, quando potrebbe capitalizzare su una stagione 3 a ridosso della perfezione, rilancia, si prende rischi, punta ancora più in alto.

Come definire dunque una serie purtroppo ancora di nicchia che deve gran parte della sua fama alla presenza nel cast di un attore celeberrimo e rispettatissimo come Gary Oldman e decide – coscientemente e audacemente – di metterlo quasi in panchina per la sua quarta stagione?

Slow Horses è la migliore serie in circolazione perché ha il coraggio di mettere in panchina Gary Oldman. La recensione della stagione 4.

Coraggiosa appunto. Un coraggio che Slow Horses può permettersi perché, giunta alla quarta stagione della serie tratta dai romanzi di spionaggio dello scrittore inglese Mick Herron, può raccogliere i frutti di un lunghissimo lavoro di creazione e stabilizzazione di un modello produttivo che non ha eguali nel panorama televisivo attuale. Slow Horses infatti sforna nuove stagioni a ritmo sostenuto senza mai un compromesso sulla qualità tecnica del prodotto finale, avendo stabilito un modello da 6 episodi a stagione che non implica alcuna concessione a lungaggini, nessuna debolezza. Ogni episodio, ogni scena deve assolvere a uno scopo preciso, lavorare alla massima potenza, essere diretta, ricca di significato, precisa nelle sue intenzioni e clinica nel risultato.

Dopo tre stagioni il pubblico si muove con famliarità al Pantano, si è affezionato ai personaggi (quelli sopravvissuti all’approccio cinico e clinico con cui Mick Herron e Will Smith sfoltiscono il parterre di personaggi a ogni stagione). È il momento di capitalizzare a livello emotivo, smettendo di tentare di sedurre i nuovi arrivati, regalando a chi è già fedele spettatore una storia personale, famigliare, drammatica, che mette al centro il protagonista ombra della serie: River Cartwright.

Slow Horses regala la stagione più personale e drammatica di sempre

River Cartwright è il protagonista putativo di Slow Horses, il punto di vista che ci introduce nel regno di Jackson Lamb. Vuoi per la rilevanza del suo interprete Gary Oldman, vuoi perché già la fonte letteraria tende a essere corale, Slow Horses ha sempre fatto di Oldman il suo re, ancorché sudato e scoreggione.

Nella stagione 4 invece Oldman diventa spettatore della storia. Certo lo sguardo acuto di Lamb rimane intatto, perché è attraverso il suo silenzioso essere testimone degli eventi che riguardano il più problematico dei suoi ronzini – River appunto – che scopriamo il viluppo narrativo fitto fitto della stagione. Testamento della bravura monumentale dell’interprete sono quel pugno di reazioni non verbali attraverso cui veicola allo spettatore le rivelazioni che piovono sulla testa del suo gruppo di spie sbandate. C’è una scena ambientata in un cimitero per esempio in cui Oldman non dice una sola parola. Si limita ad apparire e scomparire da dietro il riflesso della luce sui suoi occhiali. Da attore monumentale qual è ci fa leggere la verità non detta che ha appena intuito e l’emozione che suscita nel suo cinico personaggio. Con un singolo sguardo. 

Slow Horses è la migliore serie in circolazione perché ha il coraggio di mettere in panchina Gary Oldman. La recensione della stagione 4.

Slow Horses 4 è la definitiva consacrazione di Jack Lowden

L’emozione è la nuova arriva di una stagione che, dal suo avvio, spariglia un po’ la struttura super collaudata di Slow Horses. Una serie che ci aveva abituato ad aperture roboanti alla James Bond, a una sequenza iniziale di livello cinematografico sempre memorabile. Stavolta è tutto più raccolto, più intimo, perché la faccenda si fa dannatamente personale. Se a Londra infatti un attentato bombarolo mette il Park sul chi vive, a casa Cartwright la situazione precipita e il target di un nemico invisibile sembra essere proprio River.

Per gli amanti dello spionaggio la biografia di River Cartwright presenta una serie di ombre ed elisioni che non potevano che diventare il centro della storia. La stagione 4 è il punto di non ritorno per River e per il suo rapporto con il nonno David. È l’occasione per la definitiva consacrazione di un talento come quello di Jack Lowden, capace di non scomparire di fianco a Gary Oldman, di muoversi allo stesso livello di un veterano come Jonathan Pryce.

 Questa stagione è cucita su di lui, anche se a ben vedere anche River personaggio è ai margini di una storia davvero corale. Ha a disposizione poche, tiratissime scene in cui tira fuori l’emotività sofferta di un personaggio già “ripassato” dalle precedenti stagioni, che qui si vede crollare il mondo addosso. River reagisce, come sempre, tirando dentro la questione l’intero Pantano, scatenando in Lamb l’istinto e il dovere morale di “difendere il suo Joe in missione”. A Jonathan Pryce (già nominato per la terza stagione agli Emmy insieme a Lowden) viene dato un ruolo molto più centrale del solito. Una parte straziante, potentissima. La quarta stagione ha uno sviluppo verticale, un crescendo continuo che corona in un 6 episodio che vi spezzerà il cuore, grazie proprio alle monumentali performance di questi due interpreti, sorvegliati da lontano da un fantastico Oldman.

Slow Horses è la migliore serie in circolazione perché ha il coraggio di mettere in panchina Gary Oldman. La recensione della stagione 4.

Hugo Weaving new entry della quarta stagione convincono

Slow Horses ha tra le sua caratteristiche vincenti la capacità di fare scelte oculatissime di casting, puntando su nomi talvolta poco noti ma che sio rivelano fenomentali. La quarta stagione conferma questa regola. Hugo Weaving è il nuovo ingresso che non ha bisogno di presentazioni. Interpreta l’antagonista della stagione. Potrebbe puntare su una recitazione marcata, invece il silenzio teso e la promessa di violenza più che la sua attuazione lo rendono a tratti davvero sinistro. Il sesto episodio è fenomenale proprio per come Lowden gestisca a stretto giro le scene in cui duetta prima come Weaving, poi con Pryce, entrambi decisi a non lasciargli scampo.

Kristin Scott Thomas invece si ritrova a duettare con la new entry Claude, intepretata da James Callis (Battle Star Galactica). Giunta alla quarta stagione Diane Taverner è stanca di utilizzare i suoi artigli con eleganza e Claude Whelan, con il suo miscuglio d’incompetenza e istinto politico, le permette di tirare fuori un irresistibile lato ruvido, esasperato. La vera sorpresa però è Joanna Scanlan nei panni di Moira, la nuova babysitter di Lamb al Pantano. Come tutti i personaggi della serie, racchiude un misto di brutalità e incompetenza, rivelandosi un personaggio capace di duellare alla pari con Lamb, di prendersi cura degli altri ronzini quando ci aspetteremmo affondi la lama nelle loro debolezze e viceversa. Ci sono anche altri arrivi e partenze al Pantano, ma avremo modo di capire quanto e come funzionano nelle prossime stagioni.

Slow Horses è la migliore serie in circolazione perché ha il coraggio di mettere in panchina Gary Oldman. La recensione della stagione 4.

La stagione 4 di Slow Horses è eccellente ma non eccezionale

La quarta stagione di Slow Horses è quindi la più personale finora vista, ma forse anche la più imprecisa. Laddove la precedente era eccezionale, qui ci si ferma nel territorio dell’eccellente. Questo avviene per molte ragioni, alcune delle quali non possono essere rivelate senza fare importanti spoiler. Sicuramente giunti a questo punto della serie lo spettatore è più smaliziato ed è più diffiile coglierlo di sorpresa. Lo show runner Will Smith lo sa e si affida, più che sul twist narrativo, sull’impatto emozionale. Ha per le mani però forse il primo romanzo di Herron che sacrifica molto del realismo da “vita d’ufficio” dei ronzini all’esplorazione di uno degli stilemi, dei capisaldi del genere. Slow Horses quarta stagione suona forse meno realistica, più canonica, ma arrivata sul gran finale davvero non fa prigionieri, con un dittico finale (episodi 5 e 6) da annali. Il passo è speditissimo, si sacrifica molto della fonte letteraria: forse per il futuro sarebbe consigliabile valutare di regalarsi un episodio in più, per sfruttare al massimo il materiale di partenza.

 



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Written by: redazione

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