Analizziamo a bocce ferme la nuova avventura di Senua, per capire se ha centrato, o meno, il bersaglio prefissato
Per anni ho mal sopportato il vino Amarone senza mai capirne il perché. Considerate le mie origini venete, è un mezzo sacrilegio che probabilmente mi escluderà da ogni testamento familiare. Un mistero apparentemente senza soluzione, visto l’entusiasmo totalmente opposto per vini dal gusto affine. Eppure, ogni volta che capita di bere qualche bicchiere in compagnia, qualcosa in lontananza rovina la festa; un violino di troppo, lasciato a riverberare quando tutti gli spettatori sono già usciti dal teatro. L’enciclopedia Treccani definisce il retrogusto come “l’insieme di gusto e odore che si avverte dopo aver inghiottito una bevanda o un cibo, ma diverso dalle sensazioni iniziali”.
Un’iper-specifica nota organolettica che spesso rimane incastrata nei nostri ricordi, in grado persino di sostituirsi alle primissime considerazioni e squalificare tutti i pregi oggettivi che compongono una pietanza. Senua’s Saga mi ha lasciato gli stessi dubbi, senza farmi inizialmente capire cosa fosse andato storto. Poi ho letto la recensione del collega Luca Gambino e le ultime parole di questa frase mi hanno aperto gli occhi: “le voci […] non sono un orpello innestato ad arte dal team di sviluppo, perché pongono il giocatore nella condizione di prestarci attenzione”. Esattamente come l’Amarone nasconde il gusto di vaniglia, anche il secondo capitolo di Hellblade mostra i suoi lati meno curati solo dopo aver lavato lo stupore iniziale.
Dove cominciano i sequel?
Senua’s Saga è un gioco di compromessi e ampie dicotomie. Durante l’interminabile sviluppo del titolo Ninja Theory ha frequentemente rilasciato aggiornamenti e notizie sotto forma di video deep dive: innovazioni tecniche, interviste ad attori e producer, site survey nella meravigliosa Islanda. Tutte produzioni offuscate da una forma estremamente corporate, ma perfette per condividere la fatica gargantuesca che il modesto team inglese ha dovuto affrontare negli ultimi cinque anni. Uno di questi, intitolato semplicemente Senua’s Psychosis Feature, si concentra interamente sullo sviluppo della protagonista, romanticizzandone il processo “al contrario” per rendere fruibili determinate anomalie mentali anche a chi non ne è affetto. Come da tradizione, è un documento esteticamente perfetto, che raggiunge picchi molto toccanti e personali quando a parlare sono le stesse fonti a supporto degli sviluppatori. Eddy Maile, primo beneficiario del fondo Senua’s Scholarship del Cambridge & Peterborough NHS, definisce la narrazione della psicosi come fair, una parola spesso lost-in-translation sospesa a metà fra correttezza e giustizia.
Ciò che traspare da chi il gioco l’ha effettivamente scritto è un enorme rispetto per la materia, rinvigorito dalla volontà di trattare senza stereotipi, macchiette e maschere un argomento tanto variopinto. Il primo capitolo della serie si chiudeva con una forte immagine di auto-comprensione, una Senua finalmente consapevole del suo viaggio interiore e pronta a traslare questa contezza in benzina. Un carburante necessario per una vendetta contro ciò che sta fuori (gli Uomini del Nord) e dentro (il trauma), per mettere un punto ad un destino imposto e infrangere il loop d’odio.
Le Furie, voci interiori che sovrappongono tutte le contraddizioni indotte dalla psicosi, non spariscono da un momento all’altro, ma rimangono una costante anche nel corso di questa seconda epopea. Dai disturbi psichiatrici non si guarisce con uno schiocco di dita e Ninja Theory è molto sapiente nell’evitare ogni genere di cliché. É un incipit solidissimo che, pur andando parzialmente contro la conclusione del precedente climax anche per necessità narrative, riesce a stabilire un punto di partenza coinvolgente per chi tiene stretto il pad. Tanto mozzafiato nella tecnica, quanto funzionale in ciò che vuole raccontare. Eppure proprio in quest’ultimo aggettivo si nasconde il retrogusto vanigliato di Hellblade 2. In circa sette ore di gameplay, Senua ripercorre lo stesso identico arco narrativo del primo capitolo con variazioni talmente abbozzate da risultare trasparenti.
Un corridoio a forma di cerchio.
Nel 2007 Dara Marks pubblica l’acclamato studio “L’Arco di Trasformazione del Personaggio”. In esso, la story editor americana si imbarca in una profondissima analisi dell’omonima tecnica, delineando un focus narrativo in contrapposizione al classico sviluppo per eventi. Motore delle vicende non è più la trama in sé, ma il protagonista che le vive, le nutre e grazie ad esse si evolve fino alla conclusione. Un fulcro unico che attraversa le pagine affrontando parallelamente conflitti interni (psicoanalitici), esterni (di trama) e di relazione (con gli altri personaggi). Il saggio diventa una pietra angolare per la sceneggiatura, una presa di coscienza che potrebbe aprire lunghe riflessioni sull’evoluzione di quanto viene scritto e sulla società che lo legge: Breaking Bad, Cuore di Tenebra di Conrad, e Mafia di Illusion Softworks non sono poi cosí lontani, e la lista potrebbe essere sconfinata.
É palese che Ninja Theory abbia preso a cuore questa struttura. Senua assorbe completamente lo svolgimento dei due titoli: come accadeva in Sacrifice, anche Saga pone la guerriera dei Pitti sotto il riflettore più pesante, chiedendole di essere contemporaneamente motore degli eventi e narratrice inaffidabile, senza però replicare la scintilla del primo percorso. Il giocatore conosce la sua condizione, il MacGuffin è in scena: il fumoso margine fra allucinazioni e realtà diventa regola d’ingaggio per proseguire in questo nuovo capitolo. All’atto pratico, accompagnamo Senua in un percorso già affrontato, con novità tematiche talmente impalpabili da non riuscire a sostenerne il peso. La psicosi della protagonista viene affiancata da un appena accennato PTSD (disturbo da stress post-traumatico), paventando una comorbidità mai approfondita. I comprimari che incontriamo nella storia si trasformano velocemente in maschere bidimensionali che non offrono alcun cambio ritmico.
Il potenziale è altissimo, con Ninja Theory che chiaramente voleva mostrare quanta differenza ci possa essere nell’affrontare i turbamenti con il supporto di qualcun’altro, ma perde l’occasione non delineando personalità degne di nota. Il cast secondario è piatto, mal supportato da una sceneggiatura che sembra fermarsi al primo stadio e preferisce limitare l’approfondimento della psicosi collettiva a qualche scampolo dell’NG+. Esistono per servire una funzione e recitare un ruolo stereotipato. Senua uccide Thórgestr, rompe il circolo della predestinazione, sconfigge i giganti del suo passato e riparte da zero. Di nuovo. Narratore inaffidabile e arco trasformativo sono difficili da far collimare proprio poiché le mancanze del primo chiedono al lettore di unire i puntini di qualcosa che non conosce. Hellblade 2 cammina sui gusci d’uova, barcamenandosi fra spunti interessanti e scarso approfondimento degli stessi, raggiungendo decine di conclusioni senza organicità. Ad essere velenosi, non è difficile vederci una spasmodica ricerca del compromesso fra velleità e necessità.
La prima ora di Senua’s Saga andrebbe giocata da chiunque.
La prima ora di Senua’s Saga andrebbe giocata da chiunque. Semplicemente, tutto quadra: la recitazione di Melina Juergens è coinvolgente, il comparto tecnico lascia senza fiato e il sound design tocca picchi di immersività mai visti prima. Poi il Velo di Maya cade e ci rendiamo conto di essere incastrati in un gorgo che non tira mai troppo verso il fondo. Per chi non la conoscesse, l’esperienza di Hellblade si può riassumere come l’unione di grandi passeggiate, puzzle monodimensionali e sequenze action molto basilari. Si tratta della piú estrema esasperazione della formula story driven su cui le produzioni tripla-A sembrano essersi adagiate ormai nell’ultimo lustro, risultando sempre piú stanche, costose e anacronistiche rispetto ad altri successi del mercato. Senza citare Helldivers 2 e saltare nella parte opposta della scacchiera, la saga A Plague Tale di Asobo Studio riesce molto meglio nei suoi intenti ludici pur cadendo in un palese annacquamento orario.
God of War: Ragnarok si incarta sulla sua stessa premessa di piano sequenza, svaluta l’onestà intellettuale del suo stesso pubblico, ma porta a casa la pagnotta del divertimento. In contrapposizione, il gameplay di Senua’s Saga richiede uno sforzo enorme al resto degli elementi, con tecnica e scrittura a dover sostenere la soglia dell’attenzione per oltre sette ore e giustificarne i limiti. Una filosofia di game design che vede il videogioco come pura somma dei suoi addendi, sacrificando sinergia in favore di un controllo più granulare. Il puzzle mostra comunque un’immagine bellissima se i pezzi si incastrano fra loro. Il paradosso del medium videoludico però sta proprio nella sua peculiarità: l’interazione è richiesta solo se viene proposta, ma in quel momento la bidirezionalità è dovuta, non più solo data.
Firewatch, Everybody’s Gone to the Rapture, What Remains of Edith Finch e tutti gli altri walking simulator di successo stringono un accordo ben specifico con il giocatore e lo mantengono fino alla fine, suonano il loro racconto senza sabotarne il ritmo. E alla fine dei conti, siamo sicuri che abbiano ricavato molto meno rispetto a certi giganti? L’action di Hellblade purtroppo sembra un’aggiunta di rimbalzo, qualcosa che ci dev’essere per necessità circostanziali ma si scioglie nelle sue stesse meccaniche. Arrivati al decimo combattimento, abbiamo già visto tutto. Non c’è urgenza né divertimento, il tutto si esaurisce in un turbine di effetti grafici e sonori pregevolissimi che non bastano a soffocare la monotonia.
Ninja Theory ci ha davvero provato e in superficie ci è persino riuscita: Senua’s Saga migliora il primo capitolo sotto tutti gli aspetti, demolisce i precedenti standard tecnici e rimane un buonissimo exploit first party per Microsoft. Eppure non compie mai quel famoso salto di qualità che tutti ci aspettavamo, rimanendo incastrato nello stesso circolo che voleva rompere. Hellblade 2 è uscito da circa tre mesi e oggi mi ritrovo con lo stesso timore che avevo prima della pubblicazione: per quanto mi piaccia, non sono sicuro di volerne ancora. Esattamente come un bicchiere di Amarone.
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