Tutto quello che avreste voluto sapere su Ahmad Jamal lo ha detto il jazz in persona: «Il suo uso dello spazio, la sua leggerezza, il suo understatement, il suo lirismo e il suo fraseggio… Ho sempre pensato che Ahmad Jamal fosse un grandissimo pianista che non ha mai avuto il riconoscimento che gli spettava». Così parlò Miles Davis che del superbo esecutore di Poinciana scomparso a 92 anni, prima che amico, fu soprattutto un fan. Noi pure, ma da miseri mortali ce ne stiamo qua sconsolati a osservare cadere come foglie, uno dopo l’altro, anche i grandi del jazz della seconda metà del Novecento.
Un club del quale Ahmad aveva una tessera speciale. Veniva da Pittsburgh, città dalla quale secondo Lou Reed non può uscire nessun Michelangelo: al massimo da lì esce un Andy Warhol. Ma Ahmad era più Michelangelo che Warhol: non a caso qualche critico, ascoltando le sue figure armoniche, parlò di doti da sculture e qualche altro gli affibbiò il soprannome di «architetto del jazz». Nato Frederick Russell Jones, proveniva da una famiglia molto umile: suo padre era un operaio metalmeccanico, sua madre una cameriera con la consapevolezza che, dovunque tu viva, l’arte ti può salvare. Fu lei, secondo la vulgata, a portare in casa il primo pianoforte sul quale Frederick, ad appena tre anni, cominciò a esercitarsi.
Con il nome abbreviato in Fritz Jones accompagnò Dinah Washington, poi passò la stagione dello swing nell’orchestra di George Hudson, fino a trasferirsi a Chicago, dove nei primi anni Cinquanta fa due cose fondamentali per la sua crescita umana e artistica: fonda il trio The Three Strings (con Ray Crawford alla chitarra e Eddie Calhoun al contrabbasso) e si converte all’Islam, credo Ahmadiyya, assumendo il nome di Ahmad Jamal. La sua produzione fiorisce: celebre il live At the Pershing/But Not for Me (1958), registrato con Israel Crosby al contrabbasso e Vernel Fournier alla batteria. Tra gli album preferiti di Clint Eastwood che lo userà per la colonna sonora de I ponti di Madison County (1995).
Da sempre anticonformista nel sound: negli anni Cinquanta non si lascia tentare dall’hard bop ma preferisce le costruzioni ariose, nei Settanta non rinuncia a influenze caraibiche. Ha a lungo centellinato le proprie esibizioni, preferendo la gestione dell’Alhambra, il locale che aveva aperto a Chicago, poi dagli anni Novanta si decide a rimettersi in tour e, seppur in ritardo, ottiene dal pubblico internazionale quell’abbraccio che si meritava. Il suo approccio con il mondo era: «Il modo più rapido per avere problemi è preoccuparsi di ciò che la gente dirà della vostra vita e del vostro lavoro». Il suo approccio alla musica: «Vorrei essere uno studioso, in qualsiasi cosa io faccia. Uno studioso non è mai “finito”, è sempre in cerca. E io sono sempre in cerca». Il non finito michelangiolesco.
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