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Michael Douglas si svela tra carriera, dipendenze e famiglia. “Trump? Non capisco come non sia in carcere”

today28 Maggio 2023 3

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CANNES – «Recitare ha a che fare col mentire. Ed io sono un ottimo bugiardo».  Parola di Michael Douglas, 78 anni, il figliol prodigo (di Hollywood), è anche il titolo di un documentario a lui dedicato, The Child Prodigy, diretto dal regista francese, Amine Mestari (lo si vedrà prossimamente su arte.tv, ndr),  e presentato proprio al Festival di Cannes, in coincidenza dell’ambita Palma d’Oro alla carriera attribuitagli proprio ieri alla presenza della moglie, l’attrice Catherine Zeta-Jones e della loro bellissima figlia, Carys. L’ omaggio (doveroso) è per un protagonista soprattutto assoluto del cinema, la cui eredità è stata segnata però per diverso tempo da un mostro sacro come il padre Kirk, scomparso nel 2020 a 104 anni, e che effettivamente a tratti l’incontro, pieno di curiosità, avvenuto riguardo la sua vita d’attore, padre, figlio, celebrità, produttore, dalle origini alla consacrazione-  «Vivevo il successo, ma non ne godevo il piacere. C’erano troppe responsabilità, lavoravo eccessivamente, non  trovavo tempo per Cameron, il mio primo figlio, e lui ne soffrì, il matrimonio ne risentì, bevevo e mi drogavo troppo. È un fatto. La dipendenza avviene anche nelle migliori famiglie, io ho perso un fratello (Eric, ndr) per overdose». 

Ma l’inizio di tutto è il paragone con quella figura paterna, ingombrante, ma sempre stimolante e di ispirazione, che per molto tempo lo ha segnato sulla possibilità (o meno) di intraprendere la medesima strada. Un interprete che poteva e faceva qualunque cosa: era Kirk il cowboy, Kirk il soldato, Kir il guerriero, l’eroe americano e generazionale, amato dalle donne, seduttore e ambizioso, l’icona per eccellenza di un mondo dorato, dove lui, insieme a pochissimi altri, Paul Newman, Tony Curtis, Frank Sinatra, amici anche nel privato, sapeva primeggiare tra le folle, e sul grande schermo, in pellicole come Orizzonti di Gloria, Spartacus, Il grande campione, tanto per citarne alcuni.

Michael Douglas parte da qui, si svela a cuore aperto: dai primi ricordi, giocando col fratello a fare il benzinaio, il matrimonio e le litigate dei suoi genitori (la madre era l’attrice britannica Diana Dill), il loro divorzio, quando lui aveva 5 anni, dovendosi trasferire a New York, gli anni all’università, la Santa Barbara, in California, «una delle migliori decisioni che ho preso», dice. «Era il 1963, nascevano i movimenti hippie, io sono diventano a mia volta hippie, protestavo contro la guerra in Vietnam, ero un attivista». Scandisce gli aneddoti, col padre Kirk, come sul set de Il bruto e la bella di Vincent Minnelli, in particolare nella scena in cui bacia appassionatamente Lana Turner. «Ero nascosto dietro la camera, lo osservavo: d’un tratto mi vide, e senza farsi vedere, con la mano, fece cenno di allontanarmi». 

I film-simbolo, il riscatto, la malattia

Le domande e le memorie incombono nella conversazione, e si va alla sua di carriera. Ci sono i primi ruoli: la prima vera occasione nel telefilm Le strade di San Francisco, accanto ad uno dei suoi mentori artistici di sempre, Karl Malden, o l’intuizione, a livello produttivo, di Qualcuno volò sul nido del cuculo, con Jack Nicholson, e diretto da Miloš Forman, riuscendo a realizzare uno dei sogni del padre,  e che lo portò all’Oscar come miglior film nel 1976. «Lessi il libro da ragazzo, lo trovai magico, potente, pensare che nessuno voleva distribuirlo, ricevemmo 5 statuette.

Alla fine la vendetta è il miglior piatto che si può servire». E poi è una carrellata continua: La sindrome cinese, insieme a Jack Lemmon e Jane Fonda, «dopo averlo girato cominciarono a offrirmi solo storie e copioni legati a problematiche sociali, mi mandavano in depressione. Volevo fare altre parti. Adoravo la possibilità di combinare amore, avventura e commedia». Da qui Il gioiello del Nilo, Alla ricerca della pietra verde, La guerra dei Roses, fino ai veri film-simbolo, Attrazione fatale, e chiaramente Wall Street di Oliver Stone, nei panni del cinico Gordon Gekko (altro Oscar,

come miglior attore questa volta) e la frase diventata mantra “L’avidità è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità”. «Fu molto importante vincere l’Oscar», racconta, «perché non mi sentivo più all’ombra di mio padre, stabilì la mia identità e voce d’artista. Non ero più il figlio di Kirk». 

Michael Douglas diventa così oltremodo l’incarnazione di una Hollywood nuova, che raccoglie sì il testimone famigliare, ma sa andare avanti avanti, abbracciando ruoli diversi, inediti, fuori controllo, cattivi, da sex symbol e virile (come in Basic Instinct) a uomo sottomesso (da Demi Moore) in Rivelazioni. Nell’affrontare i tabù legati ad una mascolinità tossica e opprimente, ha messo a segno interpretazioni illuminanti: Un giorno di ordinaria follia,

Wonder Boys, Traffic, Il metodo Kominsky, visto su Netflix, o Dietro ai candelabri, nei panni del pianista e performer omosessuale Liberace, arrivando pure nell’universo Marvel Studios in Ant-Man, nel ruolo dell’entomologo Hank Pym.

Nella vita quotidiana due matrimoni: il primo, fallito e costato milioni di dollari, con la ex Diandra Luker, il secondo, più felice e duraturo (da 23 anni sono insieme), con la Zeta-Jones, dalla quale ha avuto anche il figlio Dylan, e con la quale ha affrontato la terribile notizia della malattia, un cancro alla lingua, curato tramite chemioterapia e radiazioni.

«La famiglia, mia moglie, i figli, significano molto, non sarei quello che sono senza di loro». «Il futuro? Chissà cosa porterà». Noi però già lo sappiamo: due miniserie, in cui interpreterà (ancora) non uno, ma due esponenti della storia americana, Benjamin Franklin e Ronald Reagan, e il suo carico di Ambasciatore per le Nazioni Unite.

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Scritto da: redazione

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