Il Festival Puccini di quest’anno rischiava di esser ricordato solo per il ridicolo show di Alberto Veronesi, bendatosi sul podio per dirigere, ma non vedere, la Bohème calata nel Sessantotto francese da Christophe Gairal; ambientazione che, fino alla sera della prima, non l’aveva turbato. Il cartellone operistico ha per fortuna ospitato la modernissima Turandot con la regia di Daniele Abbado e il finale carico di mistero ideato da Berio, nonché la Madama Butterfly nello spettacolo dall’elegante essenzialità firmato da Pier Luigi Pizzi e con la coinvolgente direzione di Francesco Cilluffo.
Castello del duca Barbablù di Bartok
Al Gran Teatro di Torre del Lago è poi arrivato il dittico Tabarro di Puccini e Castello del duca Barbablù di Bartok, prima parte di un progetto coprodotto con l’Opera di Roma: un titolo del Trittico abbinato a un altro atto unico di quel Novecento al quale anche Puccini appartiene; come un guardarsi nel medesimo specchio, per rivelare affinità di temi, di atmosfere.
È stato un buon successo di pubblico, cosa oltretutto non scontata vista l’inusualità dell’abbinamento; e ha favorevolmente sorpreso che i maggiori apprezzamenti siano andati a Barbablù, opera certo non frequentatissima, seppur capolavoro. Proprio ad un comun denominatore tutto novecentesco, privo di retorica triviale (come invece spesso succede nel Tabarro), intessuto di inquetudini, simboli, sogni, incubi, il regista Johannes Erath ha ricondotto i due allestimenti, rivelando uno spiccato senso del teatro. Più macchinoso e dispersivo nel Tabarro, la cui vicenda nasce dalla finzione di una rappresentazione teatrale, senza la Senna, le barche e i pescatori, ma tecnici di scena che quello spettacolo preparano; più incalzante, profondo e coerente nel Castello di Barbablù, di certo il più riuscito dei due spettacoli. In entrambi, a dominare le spartane scene di Katrin Connan è un’impalcatura praticabile, intrecciata di tubi innocenti e scale, e che assolve a molteplici funzioni; poi ci sono le luci, fondamentali, di Alessandro Carletti, i costumi di moderna linearità fatti da Noëlle Blancpain, i video, evocativi ma talvolta banalotti, di Bibi Abel.
(Fonte: La Bottega delle Immagini per Fondazione )
Erath fa precedere ciascuno dei due atti da prologhi recitati creati ad hoc (sulla musica di Crisantemi di Puccini nel Tabarro e del Quartetto La morte e la fanciulla di Schubert nel Castello), ma dei quali si poteva fare a meno, perché confondono le idee; interessanti, invece, certe reminiscenze simboliche che si riverberano da un’opera all’altra: come la piccola danzatrice in tutù bianco che appare nel sogno di Giorgetta e qui muore; la ritroveremo poi fra le mogli segregate da Barbablù. La particolare riuscita dell’opera di Bartok si deve anche a due superbi intepreti quali si rivelano Szilvia Vörös (Judit) e Johannes Martin Kränzle (Barbablù): lei voce generosa e notevole immedesimazione, lui capace di unire padronanza stilistica e rovente espressività.
(Fonte: La Bottega delle Immagini per Fondazione)
Il cast del Tabarro
Discontinuo è il livello del cast del Tabarro, dove a imporsi è Lucio Gallo, che a Michele dà una bella voce salda e ne approfondisce la psicologia con dolorosa severità d’espressione. Azer Zada tratteggia un Luigi amante inquieto e quasi timoroso, che però non s’accende nel canto come dovrebbe; così come troppo controllata, seppur duttile negli accenti e disinvolta nel recitare, risulta Monica Zanettin come Giorgetta. Loriana Castellano è una Frugola che punta molto sulla vivacità. Orchestra e Coro del Festival Puccini non fanno meraviglie, assolvono diligenti al loro compito.
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