C’è fino al 50% di manodopera straniera dietro al made in Italy agroalimentare. Anche se i dati ufficiali parlano di 362mila immigrati occupati nel settore, pari al 31,7% delle giornate di lavoro registrate, quando si tiene conto del sommerso i numeri reali sono molto più alti. È quanto emerge dal rapporto “Made in Immigritaly”, il primo commissionato dalla Fai-Cisl al centro studi Confronti sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare.
Da dove vengono i migranti
Dal Parmigiano Reggiano prodotto con il grande apporto dei lavoratori indiani, fino alle campagne agrumicole o del pomodoro nel Sud Italia, non c’è filiera del made in Italy agroalimentare in cui il lavoro migrante non assuma un ruolo rilevante. I principali Paesi di provenienza restano ancora – nell’ordine – la Romania, il Marocco, l’India, l’Albania e il Senegal. Ma mentre i lavoratori rumeni negli anni diminuiscono, marocchini, indiani e albanesi crescono di qualche migliaia, mentre i senegalesi addirittura raddoppiano. L’agricoltura però è anche il settore più a rischio sfruttamento della manodopera immigrata: quasi la metà dei provvedimenti giudiziari e delle inchieste condotte tra il 2017 e il 2021 hanno riguardato il lavoro nei campi. Le regioni del Mezzogiorno sono le più colpite, ma lo sfruttamento è cresciuto anche al Centro-Nord. Se nel 2017, su 14 procedimenti, 12 riguardavano il Sud, nel 2021 siamo passati a un rapporto di 28 su 49. Non si tratta più solo di caporalato tradizionale: dal rapporto della Fai emergono sempre più nuove forme di appalto e subappalto illecito, orchestrate mediante società di copertura intestate a prestanome o false cooperative.
«Il lavoro degli immigrati nelle filiere dell’agroindustria nazionale rimane in gran parte invisibile – ha detto il segretario generale della Fai-Cisl, Onofrio Rota, alla presentazione del rapporto ieri al Cnel – ma i dati raccolti dimostrano il carattere essenziale del contributo immigrato al made in Italy». Per questo, sostiene il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, bisogna uscire «dalle banalizzazioni del fenomeno migratorio come invasione, degli immigrati visti solo come soggetti che rubano il lavoro agli italiani: la realtà delle filiere agroalimentari dimostra il ruolo centrale e in molti casi insostituibile del lavoro dei migranti».
Il fabbisogno di forza lavoro
Lo sfruttamento dell’immigrazione inoltre pone la politica nazionale di fronte alla sfida della regolarizzazione della forza lavoro di cui il Paese evidentemente dimostra di aver bisogno. «La metà dell’input di lavoro nel settore agroalimentare viene dagli immigrati e spesso non si ha il coraggio di dirlo – ha detto il presidente del Cnel, Renato Brunetta – pensiamo cosa potrebbe essere questo settore se avessimo migrazioni regolate, inserite in percorsi di valorizzazione e processi di trasparenza». Anche il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ammette il fabbisogno di forza lavoro da parte del settore: «Questo governo – ha detto ieri intervenendo alla presentazione del rapporto Fai – è riuscito ad aumentare le quote di flussi di lavoratori immigrati, in particolare in agricoltura. Ma la formazione è fondamentale: i lavoratori che vogliono venire in Italia devono avere un chiaro percorso per arrivarci e avere condizioni di formazione anche a monte
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