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“Tutti i ‘no’ che mi ha detto mio padre”: la forza di trovare se stesse

today24 Maggio 2024 14

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Il senso del rifiuto di Paula Elena Liguori
Lo spazio per se stessi, il possesso delle proprie cose, i propri obiettivi, la propria identità. Il senso del rifiuto. Sono cresciuta in una famiglia numerosa, unica femmina di cinque figli. Ero attorniata dai quadri che dipingeva mio padre e dai tessuti e dagli abiti della sartoria di mia madre. Nonostante l’ambiente artistico in cui sono cresciuta, e nonostante il mio interesse per il mondo e la mia capacità di meravigliarmi, che ancora mi accompagna, ci sono stati episodi non tanto felici nella mia infanzia. Ce ne sono un paio che mi sento di raccontare.

Inutile farsi amici

Sono nata in Germania da genitori italiani emigrati all’estero per lavoro. Quando avevo cinque anni tutta la famiglia tornò in Italia, io parlavo solo tedesco. Da lì in poi traslocavamo circa ogni due anni in una casa nuova, in un paese nuovo. Era quasi inutile farsi degli amici. Mio padre era dell’epoca del “padre-padrone” e, a volte, era violento. Mia madre era per lo più assente, troppo occupata a lavorare, cucinare e pulire per cinque figli e un marito. I miei fratelli avevano la loro vita da cui io ero esclusa.

Non avevo un posto per me

Ho avuto una camera per me solo dopo i dodici anni, prima dormivo sul divano-letto in sala. Molte volte aspettavo che tutti fossero andati nelle loro stanze per prepararmi per la notte, perché non sapevo dove andare a cambiarmi. Non avevo un posto per me, per le mie cose, per il mio mondo di bambina. Le mie cose, che erano poche lo devo dire, erano in giro per la sala. Nel mio solitario mondo c’erano le lunghe passeggiate, la grande curiosità e la fantasia e poi il mio smisurato amore per lo sport artistico.

La passione per la ginnastica

Quando ero piccina desideravo diventare una ginnasta. Ricordo perfettamente la prima volta che ne ho vista una nella TV in bianco e nero. Avevo dieci anni. Quelle ragazze stupefacenti che scivolavano sulle piste come pantere che si staccavano dal suolo e volavano in aria, piroettando, che rimbalzavano sulle travi come molle… rimanevo ore seduta a guardare i campionati, ipnotizzata. A un certo punto chiesi a mio padre di iscrivermi a una scuola per ginnaste, gli parlai chiaro, il mio desiderio era sinceramente grande. Ma lui mi disse di no. Nonostante i primi rifiuti cominciai timidamente degli esercizi, iniziai a mimare i movimenti delle ginnaste. Ma purtroppo mio padre non era della mia stessa opinione. Gli mostrai i miei progressi e gli chiesi di potermi iscrivere alla scuola per ginnaste ancora qualche altra volta, ma la risposta era sempre negativa.

I rifiuti paterni

Cercai di capire il motivo, doveva averne uno. Era mio padre, voleva sicuramente il meglio per me, mi voleva bene. Pensavo: “Ci riprovo più avanti, forse ha ragione, vuole che io mi impegni di più, non sono ancora abbastanza brava”. Non mi abbattei. Mi rivolsi alla mia insegnante di ginnastica della scuola. Le chiesi se secondo lei io fossi portata e se avessi qualche possibilità di imparare meglio. Lei mi rispose di sì, che ero brava in ginnastica e abbastanza snodata, ma che non bastava, avrei dovuto frequentare una scuola specifica. Senza spiegarle altro le chiesi di darmi delle indicazioni di esercizi che avrei potuto fare e lei mi diede le spiegazioni di base sulle spaccate, gli archi e l’equilibrio. Ma sapevo che neanche quello mi sarebbe bastato.

La palestra in camera da letto

Pensai di cercare alla TV qualcosa che potesse insegnarmi almeno alcuni movimenti, oppure potevo provare a copiare le ginnaste e, nella peggiore delle ipotesi, emulare qualche brava ballerina. La fortuna era dalla mia parte, trovai di più: un programma che trasmetteva gli allenamenti delle vere ginnaste, con l’istruttore. Era il mio destino! Ora dovevo trovare solo lo spazio adatto, ma in casa non avevo tante possibilità. Quindi decisi che la mia palestra sarebbe stata la camera da letto dei miei fratelli, tanto loro nell’orario del programma erano sempre fuori casa. Avevo undici anni e non perdevo un attimo. Dopo qualche mese decisi di tentare ancora una volta a convincere mio padre. Ero molto più preparata, ero pronta, dopo mesi di allenamento anche seguendo l’istruttore. Chiamai una mia amichetta per darmi sostegno.

La prova

Aspettammo e quando mio padre rincasò, mi feci coraggio e lo chiamai in cucina, scelsi quel posto perché mia madre era lì e stava rassettando. Lei sapeva dei miei allenamenti, sapeva come avevo passato i pomeriggi degli ultimi mesi. Mio padre acconsentì a guardare e si sedette. Feci le pose difficili, gli archi e le fi gure di flessibilità, d’equilibrio e tutto il necessario. Mentre mi muovevo il mio sogno mi accompagnava, volevo che lui lo vedesse, volevo espormi. Scommisi su me stessa. Quando ebbi finito raccolsi tutto l’ardore che avevo e dissi a mio padre che diventare una ginnasta era la cosa che io desideravo davvero fare, che avevo sempre amato la ginnastica e fatto sport e che mi ero allenata tutti i giorni nell’ultimo anno. Gli dissi che quello era il limite di età per me, perché dopo non mi avrebbero più presa, superati i dodici anni si è “troppo vecchie” per iniziare la carriera da ginnasta. Mio padre tacque per tutto il tempo, credetti di avere una speranza, forse lo avevo colpito, forse aveva cambiato idea. La mia amichetta era dietro di me, io di fronte a mio padre, seduto sulla sedia, e mia madre a destra in fondo alla cucina. C’era il silenzio. Per un attimo pensai di avercela fatta. Mio padre mi guardò e con un tratto di leggero scherno, mi disse un’unica frase: “Ma che vuoi andare ad alzare la gamba?” Poi si alzò e uscì dalla cucina. Io lo guardai uscire senza riuscire a dire più nulla. Mi girai verso mia madre, non potevo credere che non avesse detto una parola. Lei sapeva che mi allenavo, sapeva che passavo ore a guardare le ginnaste. Lei sapeva. Ma lei continuava a lavare i piatti guardando nel lavello.

Qualcosa nel mio mondo si ruppe, in quel momento cambiai, non avrei voluto farlo, ma fu più forte di me, non potei fare altro che sentire il rumore della profonda crepa che mi si apriva dentro. E all’interno di quel vuoto si annidò una perniciosa sensazione, che divenne la mia segreta compagna di vita: il senso del rifiuto.

Il lavoro al bar

Quell’estate iniziai a lavorare per la stagione estiva al bar di un campeggio. Mia madre tentava di insegnarmi l’arte del cucito e della sartoria, ma io non volevo, doveva insistere e io sgattaiolavo via appena potevo. Non c’era più nulla che mi interessasse davvero. In casa divenni una presenza silenziosa e non mi applicavo più a scuola. Iniziai a essere più timida e ad avere spesso la sensazione di essere di disturbo o di essere non gradita. In terza media passavo molto tempo a scrivere. Un giorno avevamo un compito in classe con tema a scelta fra tre titoli. Io ero seduta al mio posto nella seconda fi la di banchi, ma la professoressa mi fece spostare. Aveva preparato un banco attaccato alla sua cattedra e mi disse di mettermi lì. Io mi sentii un po’ mortificata, ma alla punizione ero abituata. 167 Mi spostai. Sedetti, piegai i fogli a metà per il lungo e stetti a guardarli per un po’.

Il racconto del violinista

Guardai i fogli per un altro po’ e, all’improvviso, la mente iniziò a viaggiare su un titolo. Succedeva sempre così. Presi la penna e scrissi il racconto direttamente in bella. Parlava di un artista, un violinista incompreso che suonava musica che trascendeva l’umano. Musica che portava nel futuro, musica senza confini. Ma l’Umanità lo umiliò, lo derise. Persone grette e misere lo schernirono, perché se lui avesse avuto successo avrebbe dimostrato che loro avevano fallito. Egli sentì che la sua intera esistenza non aveva più valore. Non voleva vivere in un mondo che non apprezzava l’arte e si suicidò tuffandosi nel suo violino. Era un racconto enfatizzato e dallo stile un po’ naïf. Le due ore finirono e la professoressa ritirò i compiti.

Alla lezione successiva portò i nostri compiti corretti, li appoggiò sulla cattedra e ne prese uno. Iniziò a passeggiare fra i banchi, dicendo che uno dei compiti dell’ultima prova scritta lo aveva portato all’università per leggerlo ai suoi studenti. Iniziò a leggere e raccontò del violinista. Non le chiesi niente, non mi disse niente. Alla fine dell’anno, dopo gli esami, c’erano i miei genitori a ritirare la pagella. La professoressa di italiano si avvicinò a noi e chiese di poter parlare coi miei genitori. Disse loro che avrebbero dovuto farmi coltivare la scrittura. Mio padre rispose che avevano già deciso cosa avrei fatto ed era nel settore alberghiero e della ristorazione. La professoressa insistette, disse che era un enorme spreco, in tanti anni poche volte aveva così apprezzato un racconto come aveva fatto con i miei. Spiegò del tema del violino e del banco vicino alla sua cattedra. Mio padre tagliò corto dicendo che sapeva quale fosse il meglio per i suoi fi gli. Io sentivo tutto, ma non partecipavo alla conversazione, l’ultima cosa che ricordo fu lo sguardo deluso e addolorato della professoressa mentre mi salutava.

Iniziai a fumare e a mangiare male

Io non ero addolorata, era un po’ come fossi anestetizzata a quel tipo di dolore che cadde nel buco nero che avevo dentro. Quasi trovavo strano che lei si interessasse tanto a me. A quattordici anni smisi di guardare le gare delle ginnaste. Iniziai a fumare, a smettere di curare il mio corpo e a mangiare male. Feci esperienza di un paio di anni nel cucito industriale, me la cavavo ma me ne andai, lei pianse. Nel frattempo il mio tirocinio a singhiozzo continuava nella sartoria di mia madre. A sedici anni lavoravo, mi comprai il motorino tenendomi di prepotenza dei soldi dello stipendio, perché, altrimenti, finito il lavoro dovevo farmi quasi 5 km a piedi per tornare a casa.

Studiare: un altro sogno deluso

Chiesi a mio padre di poter proseguire gli studi, magari il liceo artistico. Quando finalmente mio padre si decise a farmi studiare avevo diciassette anni, mi iscrisse all’istituto alberghiero per segreteria e amministrazione d’albergo. Ma non avrei passato la mia vita seduta dentro la segreteria di un albergo. Dopo il primo anno me ne andai. Mi serviva di nuovo un lavoro e tornai nel settore della ristorazione, anche in locali rinomati, guadagnavo bene. A diciotto anni mi pagai un anno di studi di stilismo e modellismo, anche qui me la cavavo e, devo dire la verità, mi piaceva. Ma non riuscivo ad appassionarmi più a niente. Andai via.

Volevo cambiare, andarmene, non sapevo esattamente. Feci diverse esperienze, ho traslocato molte altre volte, sono stata all’estero e altre cose dall’impronta forte sono successe, ma fanno parte di altre storie. Mi sono sempre impegnata nelle cose della mia vita, soprattutto per senso del dovere. Cercavo anche di divertirmi, ma la compagna che portavo dentro di me era sempre presente e ho vissuto un po’ sempre “con la valigia pronta”. Dopo due matrimoni e due figli mi sentivo irrealizzata, insoddisfatta.

La crepa interiore

Un giorno di circa undici anni fa mi sorpresero forti e nitidi i ricordi. Avevo quarantuno anni e la crepa non si era ancora chiusa. Mi sentivo senza identità, non avevo lo spazio per me. Ricordai che in un sacchetto dentro l’armadio avevo chiuso del materiale di sartoria, andai a prenderlo e iniziai a lavorarci. Di lì a poco comprai due macchine da cucire e per quattro mesi cucii di getto tutto quello che mi veniva in mente. L’obiettivo era quello di far riaffiorare ciò che avevo imparato da ragazza da mia madre e dagli anni di cucito industriale. Mi procurai dei libri professionali, riesumai il mio libro di scuola di stilismo e modellismo. Comprai tessuti e materiali. Aprii una piccola attività che mi diede l’opportunità di crearmi un’indipendenza dopo aver lasciato il lavoro con l’azienda che era di mio marito, da cui mi separai.

Il nuovo lavoro

Dopo ulteriori sforzi e lavoro decisi che sarei diventata una couturier, cioè tutto quello che era il sarto di una volta: stilista, modellista, consulente, personal shopper e tutto il necessario per la professione. Lavoravo e non potevo sicuramente tornare a scuola per il momento, quindi mi procurai tutti i corsi online di cui avevo bisogno per aggiornare le mie competenze. Mi sono impegnata molto e sono diventata una professionista, il mio lavoro ha iniziato a essere richiesto. Finalmente, dopo tanti anni sono riuscita di nuovo ad avere una passione! La mia crepa non si è mai chiusa e penso che non succederà mai, ma si è riempita di competenza, soddisfazioni, personalità e del mio artistico spazio. In un certo modo sono riuscita a crearmi un mio appassionante universo personale, un violino in cui tuffarmi. Non avrei mai pensato di scrivere questo racconto, ma alla fine ho deciso di aprire un po’ le porte della mia rassicurante riservatezza e raccontarlo. Forse può ispirare qualcuno, così come averlo vissuto ha ispirato me.





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Scritto da: redazione

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