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Presunto Innocente, la recensione della serie TV con Jake Gyllenhaal

today15 Giugno 2024 65

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Scott Turow torna in forma di serie televisiva, riveduta e corretta, con protagonista Jake Gyllenhaal.

Nel 1987 un avvocato di Chicago di nome Scott Turow pubblicò un thriller giudiziario intitolato Presunto innocente, che diventò un best seller internazionale. Tre anni dopo l’intenso processo che vede come imputato per omicidio un procuratore abituato a mandare gli altri in galera diventa un film di grande successo con protagonista Richard Gere. Il film e il romanzo pongono domande spinose sull’efficacia del sistema giudiziario statunitense nell’accertare la verità e lavorare di conseguenza, sublimando anche una delle paure sottese più sentite dell’epoca: quella dell’impatto sociale e familiare della crescente presenza di forza lavoro femminile anche in posizioni di prestigio.

Salto in avanti di 24 anni: Apple TV+ torna sul luogo del delitto e lo fa con Turow stesso in veste di produttore esecutivo. Insieme alla Bad Robot di J.J. Abrams viene realizzato un remake riveduto, aggiornato e corretto di quella stessa storia, con al timone lo showrunner David E. Kelley (The Undoing, Big Little Lies). La sfida è quella di mantenere la forza originaria di un racconto giudiziario e umano che lascia sempre incerto lo spettatore rispetto all’innocenza del protagonista, ovviando alle mancanze che, con gli occhi di oggi sembrano più gravi (in primis il trattamento dei personaggi femminili). Così nell’estate 2024 rivivremo l’odissea giudiziaria di Rusty Sabich, stavolta interpretato da Jake Gyllenhaal.

Presunto Innocente, cosa è cambiato da Richard Gere a Jake Gyllenhaal? La recensione della serie remake Apple TV+

Jake Gyllenhaal è il nuovo presunto innocente, riveduto e aggiornato

Rusty, brillante procuratore capo a Chicago, finisce alla sbarra per il brutale omicidio di Carolyn Polhemus (Renate Reinsve), sua collega di lavoro e amante. Il caso è fortemente indiziario, ma al contempo non sembrano esserci altri sospettati di rilievo, così diventa in breve un processo alla persona: al procuratore, all’uomo, al padre di famiglia.

Al di là dell’inevitabile comparazione tra film e serie, a impressionare di questo adattamento rigoroso ma talvolta un po’ pedante è come renda impossibile da ignorare l’impatto che un singolo regista ha avuto sull’intero genere. David Fincher è ovunque in questo Presunto Innocente, che sembra un epigono meno ispirato del suo calco originale. Difficile non pensare a Fincher proprio a partire dall’approccio che la serie ha: questo Presunto Innocente è meno interessato dell’originale alla critica al sistema giudiziario statunitense e si concentra molto più sul mistero investigativo visto dal di dentro, dal team che difende il protagonista: è stato davvero Rusty a uccidere Carolyn? Se non lui, chi e come?

La storia, in sé, è assai prevedibile e non solo perché ci è già stata raccontata, ma perché Presunto innocente aderisce a certi stilemi narrativi che ha reso popolari proprio Fincher con film come L’amore bugiardo – Gone Girl e serie come Mindhunter (a oggi uno dei migliori titoli del catalogo Netflix). Presunto innocente tenta di creare suspense ma lo fa con un approccio rigoroso, asciutto, scarno, il più possibile verosimile. A colpire non è tanto quello che succede – opportunamente aggiornato ai metodi d’indagine odierni e all’importanza che elementi come il DNA hanno oggi rispetto al 1987 – ma quanto i colpi di scena e le svolte siano introdotti senza forzare la mano, quasi sottovoce.

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La produzione ha voluto rivedere l’intera indagine sotto la supervisione di esperti delle forze dell’ordine, con un risultato che ha i suoi pro e i suoi contro. Il racconto è più verosimile perché appunto, raramente si ha il senso di qualcosa di costruito a tavolino per creare tensione, però al contempo il respiro della serie è lento. La tensione si costruisce con la giustapposizione continua di elementi. Gyllenhaal fa un numero imprecisato ma impressionante di docce, corre sul tapis roulant, si toglie di continuo gli occhiali e li appende tra due bottoni della camicia. È la ripetizioni di queste “scene vuote” a raccontarci la routine di una vita normale che s’incrina di fronte alla consapevolezza che si sta giocando tutto, perché potrebbe finire in prigione per il resto della sua vita. Al contempo però chi apprezza i ritmi senza respiro di certe serie che non consentono allo spettatore di tirare il fiato, ricoprendolo di stimoli in ogni passaggio, troverà Presunto innocente sin troppo lento.

Anche a livello visivo la serie prende in prestito molto da Fincher, che è il creatore di un certo look freddo, metallizzato, asettico che oggi associato a questo tipo di produzioni. Presunto Innocente ritrae una Chicago piovosa, nebbiosa, grigia, ricoperta di grattacieli che si fanno via via più sinistri, inquadrati sempre più di sbieco. La città è costantemente descritta come un luogo in cui i cadaveri si susseguono con impressionante velocità, ma dove l’attenzione del pubblico è morbosamente catturata dal processo a Rusty.

Raymond Horgan e Peter Sarsgaard rubano la scena al protagonista

Difficile non pensare a Fincher anche considerando la presenza di Gyllenhaal quale protagonista, che con il regista ha lavorato in Zodiac (esperienza di cui entrambi parlano a denti stretti e riconoscendo screzi amboparti). La performance dell’attore è tesa e sottesa come quella dei protagonisti maschili fincheriani, più espressiva e realistica della crescente esasperazione molto cinematografica che caratterizzò la prova di Gere.

Uno degli aspetti dove Presunto innocente vince su tutta la linea è l’incredibile lavoro di casting che dimostra di aver fatto. A rubare la scena a Gyllenhaal, alle prese con un ruolo molto prevedibile, sono caratteristi come Bill Camp nei panni dell’ex capo e difensore di Rusty Raymond Horgan e Peter Sarsgaard in quelli dell’arrivista e vanesio procuratore Tommy Molto. Entrambi fanno un lavoro più che eccellente nel dare carattere e fisicità a due personaggi classici dello scenario dei legal drama.

Il colpo di genio è stato poi assumere Elizabeth Marvel, la vera moglie di Camp, come Lorraine, la moglie fittizia. Le colazioni tra i due coniugi Hogan, con lui che le racconta gli incubi notturni e la necessità di usare il processo per rimandare la pensione e rettificare la sua mesta uscita di scena dallo scenagio politico di Chicago, sono davvero tra i passaggi più riusciti della serie. Peter Sarsgaard interpreta con grande incisività la parte dell’arrivista che odia il protagonista e si sente superiore, ma viene costantemente messo di fronte al fatto che gli è inferiore in tutto, dall’aspetto fisico al talento professionale. C’è una singola scena, brevissima, in cui lo vediamo rincasare e abbracciare il suo micio, in cui Sarsgaard ci dà come spettatori tutto il lato umano di un personaggio deliziosamente viscido, suggerendo anche la sua solitudine umana.

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Non si può dire lo stesso di Ruth Negga nei panni della moglie di Rusty Barbara e di Renate Reinsve in quelli della vittima. La serie cerca di ovviare alle accuse fondate di velata misoginia dell’originale, ma fatica a dare alle due brave interpreti qualcosa d’incisivo da fare. Reinsve poi passa la maggior parte del tempo abbarbicata da Gyllenhaal nelle scene d’intimità tra i due. Un peccato, considerando che la serie abbozza un ritratto di una donna potenzialmente distaccata, anaffettiva, forse persino un po’ crudele, che avrebbe meritato molto più spazio.

Sul valore della serie invece si può esprimere un giudizio solo con riserva. Apple infatti ha deciso di mostrare ai giornalisti solo 7 degli 8 episodi di cui è composta. Considerando quanto questo rifacimento sia incentrato sulla risoluzione del mistero investigativo e giudiziario (è stato Rusty a uccidere l’amante o qualcuno sta tentando d’incastrarlo?) valutare dove la serie vada a parare e come affronti la sua risoluzione sarebbe fondamentale per dare un giudizio definitivo.



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Scritto da: redazione

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