Non le conta più, le volte che ha diretto in Giappone, Riccardo Muti. Eppure, ancora una volta, da questa settimana volerà con la sua Italia Opera Academy alla volta di Tokyo per riprovare l’ascolto di un silenzio tutto particolare, come solo da quelle parti capita di sentire, e soprattutto, per insegnare ai futuri direttori d’orchestra in cosa consista la bellezza – e il mistero – dell’opera italiana. In un suo testo esclusivo, domani nella copertina della Domenica, Muti ricorda proprio quel silenzio «unico, assorto, rispettoso, partecipe: perché nella musica esistono due tipi di silenzio: uno morto, e uno all’opposto eloquente. Vivo, pieno di significato». Sarà in quelle sale giapponesi, dopo che nel 2019 ha portato Rigoletto, nel 2021 Macbeth, nel 2023 Un ballo in maschera, che ora si aggiungerà Attila. «Titolo particolare, meno scontato, sicuramente anche meno conosciuto, perché fa parte della produzione dei cosiddetti “anni di galera”, a lungo screditati e tacciati di una scrittura superficiale e frettolosa. Niente di più sbagliato. Non sono assolutamente d’accordo. Il primissimo Verdi contiene già tutte le formule originali di costruzione e la esattezza cristallina dei grandi capolavori. Partitura alla mano, al pianoforte e sul podio lo dimostrerò ai giovani direttori (selezionati su un numero vistoso di richieste) che frequenteranno queste lezioni. Dove avremo la fortuna di un protagonista vocale d’eccezione, il basso Ildar Abdrazakov». Si tratta di raccontare il capo degli Unni, un «perdente su tutti i fronti», scrive Muti. Non solo. «Attila non è il barbaro dei vecchi libri di scuola, quello riassunto nel motto: dove passa non cresce più l’erba. Nessuna opera teatrale avrebbe potuto reggere tanta semplificazione, e Verdi era un fine drammaturgo, esigente, molto attento nelle scelte dei suoi soggetti. Attila è un uomo di guerra e di potere, muscoloso e gigantesco; figura michelangiolesca, segnato dall’amore, tradito da tutti quelli in cui aveva riposto fiducia. Il teatro in musica vede sfilare una serie infinita di tradimenti, ma qui se ne accumulano diversi. Lui ne viene accerchiato. Muore nella solitudine dell’eroe».
Il progetto di Muti serve a far scoprire l’opera italiana, dall’interno, ai giovani direttori. «Che per certo provengono da scuole blasonate ma dove non si insegna l’opera italiana. Nel suo linguaggio specifico, nei suoi principi fondamentali».
E di principi parla Carlo Ossola, storico collaboratore della Domenica e fresco di nomina, da parte del Capo dello Stato, alla presidenza della Enciclopedia Treccani. Il suo articolo di domani, quasi un manifesto, coglie le differenze tra i saperi trasferiti e i saperi incorporati. «Assistiamo, sempre più, a un trasferimento di dati, di operazioni, di competenze e di memoria dalla nostra mente ad altri corpi a noi esterni, database». Ma il «fondamento delle Enciclopedie» scrive Ossola, «non era tanto nell’estensione dell’aggregazione, nel convogliamento della datità, quanto nel tracciare il circolo di ciò che poteva “essere incorporato”: dagli occhi, dalla lettura, dalla memoria, dalla singola esistenza. Oggi “si scorporano” sempre più i saperi trasferendoli in un altrove letteralmente inafferrabile». Occorre «riprendere quella lezione critica: il centro dell’uomo è l’uomo, la sua dignità, la sua esistenza che, a differenza delle cose e delle memorie digitali, è unica – e breve». Una traccia per il suo lavoro in una istituzione italiana così prestigiosa e densa di senso collettivo, per il quale gli facciamo i migliori auguri.
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