Quando si parla di gigante e quella stessa definizione sembra andare stretta, essere addirittura un diminutivo: definire una figura come Quincy Jones, scomparso all’inizio della settimana, a novantuno anni, gran parte dei quali devoluti alla musica, per la musica, sembrerebbe un azzardo, viste le tante professioni che, come una matrioska, l’artista di Chicago ha incarnato. Con numeri a sua volta da capogiro, sette decenni di carriera, Grammy e onorificenze vinte a grappolo, dischi realizzati nell’eccellenza dalla meta’ dei Cinquanta; e poi con collaborazioni messe segno in ogni campo, Quincy Jones ha attraversato e accompagnato la grande musica, a partire da quindicenne, iniziando a suonare e calcare i palcoscenici insieme all’amico Ray Charles. Arduo indicare una graduatoria di preferenza tra i mestieri abbracciati da Quincy: autore, direttore d’orchestra, arrangiatore, polistrumentista, tra jazz, funky, soul e colonne sonore, l’impronta lasciata sul terreno del Novecento resta ben visibile e legata anche ai prodigi di tanti album passati alla Storia. Ma, si dovesse sottolineare un ruolo che ha visto Jones primeggiare, battendo per distacco i colleghi di epoche diverse, quello del produttore metterebbe tutti d’accordo.
Produttore
Una funzione delicata, spesso oscura, giocata dietro le quinte, quando ai tuoi clienti, o ai tuoi protetti bisogna suggerire la strada maestra, tarpare le ali dell’egotismo insegnando come ricavare il meglio di se’: un allenatore d’alto bordo, uno stratega fine e intuitivo, che, nel caso di Quincy Jones, non doveva solo amministrare il gusto e un certo sentimento per l’arredo nei suoni, ma entrava direttamente tra le pagine delle partitura, pilotava i musicisti di studio, e poi si occupava dei tagli, del montaggio, di raffinare la materia grezza, per arrivare al sontuoso prodotto finale di decine e decine di titoli. Spesso il produttore opera senza farsi vedere, non ama essere notato, quasi che le pozioni magiche destinate ad essere distillate da giorni e notti, mesi a trovare la soluzione migliore, fossero un segreto industriale da proteggere gelosamente. Il produttore, con il nome che va sempre cercato in fondo alla copertina, o in un angolo del libretto interno di un cd, scomparso piu’ facilmente oggi che la musica si tramuta in liquida, senza piu’ informazioni collaterali, ha spesso tra le mani il destino di una creatura di per se’ fragile come una canzone, o un disco.
We are the world (1984)
Una volta investito di quella responsabilità, ben posizionato sulla tolda di comando, deve interagire con l’artista o la band, piegarne gli umori insieme a quelli di chi ha scritto le canzoni, e poi scegliere chi effettivamente imbraccia gli strumenti, l’ingegnere del suono, fino a tutti i passaggi necessari per giungere al parto finale. Un impegno totale, certosino, dove il carisma, l’autorevolezza e prestigio acquisiti saranno il battistrada fondamentale: ecco perché, secondo opinione comune, uno come Quincy Jones rimarrà comunque in cima a tutti, nell’Olimpo. C’e’ una sequenza, nel documentario dedicato alla genesi di We are the world (1984), con le massime stelle del pop-rock convocate in una notte a Los Angeles, per montare una canzone e raccogliere denari e aiuti per l’Africa, che risulta particolarmente istruttiva: dopo ore di session senza pausa, viene il momento, per Quincy, produttore dell’intera operazione, di dare la strofa di riferimento a Bob Dylan, di cui sappiamo il notorio carattere ritroso e scorbutico. Tiene in mano un foglietto con la sua parte, mentre alle spalle Stevie Wonder sgrana la melodia alle tastiere: nel bailamme di superstar, divi e primedonne, Jones, in tuta bianca, si avvicina a Dylan e lo incoraggia, fino a insegnargli come e cosa cantare. L’espressione tra l’incredulo e la riconoscenza di Mr. Zimmermann, monumento alieno, vale da sola il docufilm del regista Bao Nguyen.
Con il suo spirito di musicista onnivoro, capace di produrre ogni tipo di fuoriclasse, Jones spiegherà indirettamente al mondo, anche come fare di Michael Jackson l’apice, anche commerciale alla fine del secolo scorso. Dietro un album epocale e simbolo quale Thriller (1982), il piu’ venduto d’ogni tempo, a tutte le latitudini – oltre cento milioni di copie stimate -, c’e’ il genio e l’intuito di un maestro che per nulla intimidito delle bizze caratteriali di Jackson seppe cosa dire, fissando nella memoria collettiva quello che unanimemente appartiene di diritto alla schiera dei capolavori. Il produttore, nell’immaginario popolare e’ il lider maximo di un progetto discografico, il plenipotenziario, ma, nella peggiore delle ipotesi anche un dissipatore di energie e finanze, addetto a far quadrare i conti, selezionare macchine e uomini su cui avere l’ultima parola. Le (dis)avventure di blasonati colleghi di Jones sono state fatte oggetto di film, come nel caso di Phil Spector (su Netflix), ossessioni e paranoie a inseguire il successo e la gloria: all’opposto di Quincy, che la sua vita spese, anche per la difesa dei diritti civili e delle libertà ai livelli più alti.
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